Se nasco ti denuncio

Lo speciale “E’ vita” del quotidiano “Avvenire” il 22 novembre titola così un articolo: “Quando il bambino down è «meno persona»”, in riferimento ad una recente sentenza della Cassazione che ha stabilito il risarcimento del danno in favore di due coniugi e della loro figlia nata con handicap. Nel dettaglio: un medico, non avendo adeguatamente informato una coppia delle possibili patologie con cui sarebbe potuta nascere la loro figlia, dovrà risarcire sia loro che la bambina nata con sindrome di Down. Se la mamma, in primis, avesse saputo - attraverso gli esami diagnostici consentiti durante le gestazione – che vi era la possibilità di partorire una bambina down, potendosi con ciò, secondo la legge 194 che disciplina l’interruzione volontaria della gravidanza, appellarsi alla lesione della sua salute psico-fisica, avrebbe potuto chiedere dunque l’aborto.
La possibilità negata si è tramutata in un danno per lei, il compagno e la bambina, atta a chiedere un risarcimento perché messa al mondo in assenza delle qualità di vita minime tali da poter parlare di una vita degna. Questa sentenza della Cassazione ha suscitato non poche polemiche, soprattutto in coloro che attribuiscono un valore assoluto, non negoziabile, ai concetti di vita e dignità contro invece il sancito “diritto a non nascere”. Stesse polemiche e riflessioni nel mondo accademico ha suscitato l’affaire Perruche in Francia: in quel caso, una donna in stato interessante da due mesi si è rivolta al proprio medico per sapere se ha contratto la rosolia dall’altra figlia. Esito negativo dal laboratorio analisi: la donna può proseguire la propria gravidanza. Errore fatale: le analisi sono risultate sbagliate e la donna ha partorito il piccolo Nicolas Perruche affetto da gravi menomazioni che lo costringeranno a condurre una vita di sofferenze. Se la signora Perruche fosse stata avvertita del grave pericolo, avrebbe potuto scegliere, per legge, di interrompere la gravidanza. Richieste di risarcimento del danno anche in questo caso accettate perché entrambe le domande possono rientrare nelle definizioni di wrongful birth e wrongful life action, a causa di una medical malpractice; la differenza risiede nei soggetti attivi dell’azione, nel primo caso presentata dai genitori, nel secondo dal figlio.
Al di là delle specifiche processuali, quello che interessa maggiormente delle due sentenze citate è che in entrambe le occasioni la giurisprudenza ha assunto a fondamento della decisione l’idea che in alcuni casi l’ordinamento giuridico possa riconoscere il principio della preferibilità della non-esistenza all’esistenza. Quello che occorre chiedersi ora è se la decisione del tribunale sia immorale, come “Avvenire” sottolinea. Siamo sulla soglia di un pendio che ci porterà alla selezione eugenetica delle future generazioni, come tuonano allarmisticamente dal quotidiano della Cei? Assolutamente no, ma da qui si apre uno spettro molto ampio di questioni che conducono al momento ad una unica certezza: l’evoluzione tecnologica, medica e scientifica (si pensi alla fecondazione medicalmente assistita) ha fatto svanire la serena illusione di concetti chiari e distinti in materia di inizio e fine vita. Siamo costretti a riscrivere tutti quei paradigmi che pensavamo basilari di una discussione interdisciplinare. E forse non è affatto un male se questo permette un miglioramento della qualità della vita e una gamma più vasta di decisioni. Ma altresì ci costringe a rafforzare l’insieme motivazionale delle nostre azioni. Se un genitore o una coppia di genitori, pur consapevoli che la vita del figlio che sta per nascere sarebbe tormentata da una grave menomazione, decide tuttavia di portare a termine la gravidanza e di farlo nascere, compie un’azione immorale? E, in caso affermativo, la violazione del diritto di non esistere implica una qualche conseguenza di tipo civile o penale per i genitori? E davvero una esistenza caratterizzata da una irreparabile anormalità fisica (o anche psichica in caso di figli nati da incesto) è meno degna di essere vissuta di un’altra, tale da legittimare la richiesta del danno da parte del figlio, i cui interessi sono stati lesi? Un lamentato torto di procreazione costringe dunque il legislatore, i bioeticisti e la società civile ad una sorta di contrattazione o bilanciamento di nozioni ormai non più definite e definitive di vita, esistenza, responsabilità morale, danno e persona.
A parere di chi scrive, avere la pretesa di poter rispondere a tutte queste domande è una chimera. Ma alcuni punti saldi possono essere rintracciati: il primo è non dare per scontato che una vita segnata da gravi malformazioni sia una vita che universalmente valga e sia felice; il secondo è non pensare che tutti i genitori debbano comportarsi in un unico modo eticamente accettabile, invece di procedere secondo le loro valutazioni, liberi da coercizioni, nello scegliere se metter al mondo un figlio malato; il terzo è il rispetto della vita nella sua diversità e percezione personale: nessun modello di vita può essere migliore di un altro e imposto come eticamente raggiungibile, ma, allo stesso tempo, se un individuo reputa la sua vita peggiore di un'altra ha il diritto di obiettare e cercare di individuare le radici della sua 'vita sbagliata'.

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