Intervista a Gaia Tortora
di Angela Stella Il Riformista 1 aprile 2021
Due giorni fa la Camera dei Deputati ha recepito la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza nella legge di delegazione europea. Il testo vincola appunto le autorità pubbliche, e dunque gli stessi magistrati, a non presentare la persona come colpevole fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata. Ne parliamo con Gaia Tortora, giornalista e volto noto dell'informazione di La7 e figlia di Enzo Tortora, una delle vittime più famose della malagiustizia italiana.
Come giudica il raggiungimento di questo obiettivo?
Sicuramente si è raggiunto un obiettivo importante, anche se con un certo
ritardo. Quello della presunzione di innocenza è un concetto che dovrebbe
essere scontato, eppure così non è. Quindi il recepimento della direttiva è un
passo in avanti per la cultura giuridica del nostro Paese in chiave garantista.
Da un punto di vista politico, abbiamo visto esultare le forze di
maggioranze tranne il Movimento Cinque Stelle che ha ridimensionato il
risultato. Secondo Lei con questa nuova Ministra si può sperare in una più
ampia e convinta convergenza verso un approccio garantista della giustizia?
Nutro una discreta dose di fiducia nei confronti del nuovo Ministro della
Giustizia perché forse finalmente grazie alla professoressa Cartabia abbiamo
l'occasione di depersonalizzare e depoliticizzare la giustizia, di non associarla
sempre a qualche personaggio che sia Silvio Berlusconi, Matteo Renzi o lo
stesso Alfonso Bonafede. Con questo nuovo Ministro ci muoviamo solamente
all'interno di una cornice costituzionale e nel pieno rispetto dei principi di
uno Stato di Diritto.
Il deputato di Azione Enrico Costa, che insieme al collega di +Europa
Riccardo Magi, si è speso molto a favore della direttiva ha sostenuto in più
occasioni che nel nostro Paese la presunzione di innocenza è ignorata. E da ciò
derivano una serie di abusi come le centomila persone assolte in primo grado, che
però prima hanno subito una feroce gogna mediatica. Lei è d'accordo con questa
analisi?
In questo caso sono i numeri a dare valore all'analisi. Dopo di che,
bisogna anche dire che il problema non è solo di certe procure che mettono in
piedi lo show mediatico, in quanto la gogna appartiene al mondo
dell'informazione. È chiaro che se da oggi, con il recepimento della direttiva,
un pubblico ministero userà espressioni che inducono a ritenere un indagato già
colpevole, il giornalista dovrebbe avere la professionalità per farlo notare:
riportare la dichiarazione ma censurarla come inopportuna. Poi ci potrebbe
essere anche il caso contrario in cui un pm rispetta il giusto linguaggio ma
poi l'informazione fa un tipo di narrazione colpevolista. Quindi eviterei
generalizzazioni.
Come si risolve il corto circuito mediatico giudiziario? Ad esempio su
molti giornali vediamo pubblicate intere ordinanze o intercettazioni che nulla
hanno a che vedere con l'inchiesta giuridica.
Il problema è sempre quello di come bilanciare il diritto di cronaca del
giornalista con i diritti degli indagati e imputati quali quello alla
riservatezza. Non si può mettere un freno al giornalismo di inchiesta, però i
fatti vanno raccontati in maniera oggettiva, realistica senza prendere una
posizione che potrebbe instillare nel pubblico il pregiudizio. È importante
distinguere tra giornalismo di inchiesta e processo mediatico parallelo. Poi
c'è da fare anche una considerazione di tipo politico.
Prego.
Fino a poco tempo fa al Ministero della Giustizia c'è un Guardasigilli di
un movimento politico che ha fatto dello slogan 'onestà, onestà' il proprio
cavallo di battaglia. L'onestà dovrebbe valere in principio per tutti e non
spetta a nessuno emettere una sentenza prima di un giudizio definitivo. Questo
significa rispettare il principio di non colpevolezza.
Nonostante ci siano dei divieti, vediamo spesso riprese e mandate in onda persone
ammenettate. Questa è una responsabilità della nostra categoria di giornalisti.
Certo, è nostra. Nel fare il nostro mestiere dovremmo aver quel buon
senso che ci mette nelle condizioni di non sposare la tesi accusatoria e quindi
rispettare la dignità di chi viene privato della libertà personale. Poi se vuoi
agitare il popolo verso la forca o lasciar intendere che una informazione di
garanzia sia già un marchio di colpevolezza allora non stai facendo un buon
lavoro. Dividere il Paese tra innocentisti e colpevolisti fa sicuramente share
ma non offre un buon servizio al dibattito pubblico.
La Ministra Marta Cartabia proprio nelle sue prime dichiarazioni aveva
detto: «a proposito della presunzione di innocenza, permettetemi di
sottolineare la necessità che l'avvio delle indagini sia sempre condotto con il
dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per una effettiva tutela
della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema
costituzionale». A suo padre questa
riserbo non fu concesso, anzi dovette subire quella che negli Stati Uniti
chiamano perp walk o walk of shame, la passeggiata della
vergogna dinanzi ai fotografi. Possibile che dopo lo scandalo Tortora abbiamo
dovuto aspettare così tanti anni per fare un piccolo grande passo nella giusta
direzione?
La dichiarazione della Ministra è ineccepibile. Purtroppo come ricordava
Lei a mio padre non è stato concesso quel riserbo. Tuttavia da allora qualcosa
è cambiato, non molto ma è così. Non credo che si facciano fare più quelle
passeggiate della vergona. Certo, soffriamo ancora di una certa
politicizzazione dell'inchiesta: diversi trattamenti sono riservati a seconda,
ad esempio, del partito o della 'casta' a cui si appartiene qualora si venga
indagati. Si dovrebbe giudicare in base agli atti e a quello che emerge nei
processi, senza nessun altro metro di giudizio. Il problema è profondamente
culturale e tocca tutti gli attori in gioco: magistratura, giornalisti,
opinione pubblica. Rispetto alla vicenda di mio padre ci fu una nota
giornalista che scrisse: "se è stato arrestato di notte, qualcosa avrà
fatto". Instillare questo dubbio nella testa delle persone o conservarlo
nella propria mente quando si fa il lavoro di giornalista equivale ad una
condanna. Mio padre mi raccontava che, anche se è stato assolto, quando camminava
per strada e negli occhi delle persone intravedeva il sospetto nei suoi
confronti quella situazione lo uccideva per la seconda volta. L'assoluzione ti
ripaga in parte perché il dramma che vivi non ti abbandona mai. Quello che ti
si è scatenato intorno non è più risarcibile da nessun punto di vista. Bisogna
fare un processo alle nostre coscienze e pensare che a chiunque possa accadere
quello che è successo a mio padre e a tanti come lui.
Ci si chiede sempre di immedesimarci nei parenti delle vittime di reati. Io
invece chiedo a Lei cosa significa essere parenti di una vittima di errore
giudiziario, che ha subìto quello che ha subìto suo padre.
È una bomba atomica che ti esplode dentro: è un qualcosa di cui non ti
capaciti a maggior ragione se tu credi nelle istituzioni. E mio padre ci
credeva da sempre. Non posso poi scordare colleghi che hanno stappato lo
champagne perché mio padre era stato arrestato e lo hanno dipinto in maniera
distorta. Questo non si può dimenticare. Nonostante la devastazione che abbiamo
sofferto, alla fine mio padre è stato assolto. Un giudice ha riconosciuto la
sua innocenza e questo mi porta a credere ancora nella giustizia, in quei
magistrati che lavorano bene e nel silenzio.
Però chi ha sbagliato tra i magistrati ha fatto carriera. Su questo
giornale per primi, stimolati dall'appello rivolto dall'Unione delle Camere
Penali al neo presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia, abbiamo aperto un
dibattito sulla valutazione professionale dei magistrati. In sintesi: quando il
Csm valuta i profili per le eventuali promozioni dovrebbe tenere in conto anche
le statistiche relative alle inchieste dei pm che si sono poi concluse con le
assoluzioni, ad esempio. Ma nella magistratura c'è molta reticenza. Lei che ne
pensa?
Sono pienamente d'accordo: i magistrati devono essere giudicati come
tutti gli altri. Il tema della valutazione è importante e dovrebbe essere
affrontato in questo Paese. Ci sono purtroppo delle categorie che non si sa per
quale motivo vogliono sottrarsi e considerarsi immuni. Valutare non vuol dire
mettere alla gogna ma esaminare il proprio lavoro.
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