Il doppio male della magistratura: in guerra o collusa con la politica
di Angela Stella Il Riformista 2 marzo 2021
Per
Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale presso l’Università di
Palermo e garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia, «prima ancora
che una rinascita morale, sarebbe necessario un ri-orientamento culturale complessivo
della magistratura» e un atto di coraggio della politica il cui «timore di fare
riforme sgradite alla magistratura, paventandone reazioni ritorsive» ha
bloccato l'afflato riformista. Sul tema della prescrizione invita il nuovo
Ministro della Giustizia Marta Cartabia a recuperarne «le ragioni garantiste in
chiave di diritto del cittadino a non essere tenuto indeterminatamente in balia
della macchina dell'accusa e indeterminatamente soggetto all'afflizione
sostanziale del giudizio pubblico sulla propria persona». Sulla possibile nuova
nomina ai vertici del Dap, Fiandaca ci dice: «L'attuale capo Petralia ha
capacità ed equilibrio», ma perché per questi ruoli non scegliere «giudici di
sorveglianza piuttosto che ex pubblici ministeri»?
Ci
siamo lasciati da poco alle spalle l'inaugurazione dell'anno giudiziario: si è
parlato di rivoluzione morale nella magistratura, di necessità di riacquisire
credibilità. Ma secondo Lei, la magistratura è davvero pronta a fare un atto di
mea culpa e a riformarsi?
In un mio
recente articolo sul Foglio a commento del libro di Sallusti e Palamara
ho manifestato una mia ormai risalente opinione che qui ribadisco. Prima ancora
che una rinascita morale, sarebbe necessario un ri-orientamento culturale
complessivo della magistratura, relativo non ultimo al modo di concepire e
realizzare da un lato il controllo di legalità sul ceto politico e dall'altro
di tenere relazione con il mondo politico-istituzionale. Nella magistratura
italiana convivono patologicamente forme di pregiudiziale conflittualità
oppositiva rispetto al potere politico e alleanze collusivo-clientelari,
o comunque tendenze ad un indebito collateralismo con settori del mondo
politico, sia di sinistra, di centro, di destra e più di recente con partiti
populisti. Tutto questo è molto dannoso per un sistema democratico; ma penso
che di questo necessario riorientamento, che per comodità definisco culturale,
la magistratura non sia da sola capace, essa ha bisogno di essere aiutata e
supportata dall'esterno. Occorrerebbe riaprire un dibattito pubblico diffuso,
con diversi protagonisti tra cui l'avvocatura, il mondo universitario, i
cosiddetti intellettuali appartenenti a differenti aree disciplinari, inclusi i
cittadini sensibili al tema. Ma il nostro è il tempo dei dibattiti pubblici e
dei confronti approfonditi?
Probabilmente
le riforme più temute all'interno della magistratura sono il sorteggio per i
membri del Csm e la separazione delle carriere. Qui il problema non è solo la
magistratura che farà opposizione ma anche la politica suddita della
magistratura che non si metterà contro di essa. Lei che ne pensa?
Il
timore dei politici di fare riforme sgradite alla magistratura, paventandone
reazioni ritorsive mediante l'apertura anche pretestuosa di indagini mirate a
mettere sotto accusa o comunque a screditare esponenti dei versanti politici
avvertiti contingentemente come avversi, credo sia reale. Sono d'accordo con
Galli della Loggia che di recente ha scritto che sta proprio in questa
preoccupazione una delle principali cause della timidezza riformistica del
potere politico nel campo della giustizia. Mi augurerei che con l'avvento del
governo Draghi il tasso di conflittualità anche potenziale tra politica e
magistratura scemi, anche se non so se questo nuovo Governo cosiddetto di
competenti avrà il tempo o anche l'intenzione di porre mano a tutti i numerosi
interventi pure sul terreno della giustizia penale che sarebbero in linea
teorica indispensabili.
Il
professor Vittorio Manes da queste pagine ha detto: «Bisognerebbe prendere atto
che l’amministrazione del giustizia è un “servizio”, una “public utility” dove
i magistrati sono “civil servant” e i cittadini gli utenti; e che, specie in
materia penale, un obiettivo minimo di civiltà impone di assicurare uniformità
e parità di trattamento». Invece il libro di Luca Palamara fa emergere una
situazione completamente diversa, dove conta più l'appartenenza ad una corrente
che l'amministrazione della giustizia. Chi ne paga le conseguenze sono i
cittadini e le loro tutele. Lei che ne pensa?
Concordo
con Vittorio Manes. Purtroppo è incontestabile che l'appartenenza correntizia
abbia a tutt'oggi costituito il principale criterio di scelta preferenziale per
i magistrati da porre a capo degli uffici o comunque da promuovere nella progressione
di carriera. Le correnti, come ho sperimentato anche io da ex componente del
Csm, si sono sempre più trasformate in macchine di potere clientelare, con
progressiva diminuzione della loro capacità di elaborazione culturale in una
prospettiva di pluralismo virtuoso. Penso, non da ora, che sia necessario
recuperare una maggiore omogeneità negli orientamenti di fondo all'interno del
potere giudiziario, all'insegna di una cultura giurisdizionale il più possibile
condivisa da ogni magistrato. Ma il problema ancora una volta è più di cultura
di sfondo e di fondo che di riforme legislative. Dubito che riforme scritte
sulla carta possano eliminare da sole il fenomeno della degenerazione
correntizia.
Legato
a questo c'è il tema delle valutazioni dei magistrati. Ormai è chiaro che le
promozioni non avvengono per il merito. Il presidente dell'Unione della Camere
Penali ha chiesto una riflessione seria su questo al nuovo presidente dell'Anm
Santalucia.
La
questione dei criteri di valutazione per la nomina dei vertici degli uffici è
risalente e persistente. E assai bene è intervenuto in proposito Nello Rossi,
valoroso ex magistrato e autorevole direttore della rivista Questione
giustizia, proprio in un recente articolo sul Riformista.
Egli ha ironicamente posto l'interrogativo: «è possibile che sono tutti geni?».
Ha riconosciuto che il sistema di valutazione della professionalità
evidentemente non funziona affatto. Condividerei i rimedi che lo stesso Rossi
ha suggerito: responsabilizzare di più i controllori e a loro volta
controllarli; moltiplicare le fonti di conoscenza cui attingere nella
valutazione di professionalità; ampliare le forme di partecipazione
dell'avvocatura e del mondo universitario alle procedure di valutazione dei
magistrati, rendendole al tempo stesso più trasparenti.
C'è
molto entusiasmo intorno alla figura del neo-ministro della Giustizia, Marta
Cartabia. Tuttavia un po' di scontento ha suscitato il suo ordine del giorno in
cui ha messo tutte le forze di maggioranza d'accordo procrastinando la
discussione. Lei apprezza questo suo tentativo di mediazione o la riforma
Bonafede sulla prescrizione va abolita e basta?
Guardo
con molto favore a Marta Cartabia, perché si tratta di una ex presidente della
Consulta e di una studiosa costituzionalista che so ispirarsi a direttrici
culturali di fondo, anche in materia penitenziaria, che sono direi agli
antipodi rispetto alla demagogia punitivista del precedente Guardasigilli
grillino. Mi augurerei che riguardo al tormentato tema della prescrizione il nuovo
ministro, in coerenza con la tesi più volte affermata dalla Corte
Costituzionale della natura sostanziale e non processuale della prescrizione,
non si limiti a guardare a questo istituto nella ristretta ottica processuale
dell'accelerazione dei tempi del processo penale, ma ne recuperi le ragioni
garantiste in chiave di diritto del cittadino a non essere tenuto
indeterminatamente in balia della macchina dell'accusa e indeterminatamente
soggetto all'afflizione sostanziale del giudizio pubblico sulla propria
persona, come ha efficacemente scritto di recente su questo giornale il mio
collega e amico Massimo Donini. Da vecchio professore di diritto penale mi
permetterei di consigliare a Marta Cartabia di chiamare al più presto al
capezzale della prescrizione un ristretto gruppo di professori, avvocati e
magistrati davvero esperti in materia per proporre interventi normativi
all'altezza del problema.
Il caso
Cutolo ha riaperto la discussione sul 41bis. Questa giornale ha parlato di
'vendetta di Stato' essendo Cutolo morto da solo al 41bis pur essendo molto
malato. Qual è il suo pensiero su questo?
Ritengo
che sul 41 bis occorra un check up sotto diversi aspetti, non solo per
verificare sul piano empirico-criminologico la persistente necessità di
sottoporre a questo regime penitenziario speciale una quantità di soggetti che
supera a tutt'oggi le 600 unità, ma anche per rivederne in termini di sempre
maggiore compatibilità costituzionale la disciplina. Forse sono anche maturati
i tempi per ricondurre integralmente alla competenza della magistratura
l'applicazione di questo istituto.
Un atto
di discontinuità del nuovo governo potrebbe essere il cambio dei vertici del
Dap, che sono due figure dell'antimafia?
Non
molto tempo fa l'ex presidente della Consulta Valerio Onida in un articolo sul Corriere
della Sera ha sollevato l'interrogativo sulla validità delle ragioni per
cui ai vertici dei comparti amministrativi del Ministero della Giustizia
debbano essere sempre posti magistrati, e non dirigenti amministrativi di competenza
ed esperienza specificamente maturate nei settori coinvolti. Inoltre si
potrebbe anche ritenere che se vogliamo che siano proprio magistrati a dirigere
il Dap almeno questi capi si scelgano tra i migliori giudici di sorveglianza
piuttosto che tra gli ex pubblici ministeri. Detto questo in linea teorica o di
principio, la mia personale e risalente conoscenza dell'attuale capo del Dap,
dottor Petralia, mi induce a confidare - nonostante si tratti di un ex
procuratore generale - che egli possegga le capacità e l'equilibrio necessari
per gestire bene l'amministrazione penitenziaria. Spero anche che la nuova
ministra Cartabia, di cui mi è nota la spiccata sensibilità per la dimensione
costituzionale della pena, dedichi molta attenzione alla realtà penitenziaria
che necessita non solo di nuovi interventi riformistici ma anche di efficaci
terapie sul piano della gestione amministrativa e della diffusione di buone
prassi.
Al di
là di tutte le singole riforme che si possono proporre in tema di politica
giudiziaria, non ritiene che ci sia un problema generale di cultura? Il nostro
Paese non soffre ormai da troppo tempo di due gravi mali: giustizialismo e
panpenalismo?
Sono
senz'altro d'accordo. Le due gravi patologie del panpenalismo e del
giustizialismo come studioso non mi stanco di diagnosticarle e denunciarle da
svariati anni e tento, anche con i miei scritti specialistici, di contribuire a
proporre medicine e antidoti per contrastarle o almeno arginarle.
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