L'attrazione fatale della Consulta per la realpolitik
di Angela Stella Il Riformista 21 novembre 2020
Qualche giorno fa la Consulta ha ritenuto
infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito alla norma,
introdotta durante l’emergenza sanitaria, che prevede la retroattività della
sospensione dei termini della prescrizione. Nel procedimento era stato ammesso
un amicus curiae dell’Osservatorio
Corte Costituzionale dell’Ucpi, il cui responsabile è l'avvocato Vittorio
Manes, Professore
Ordinario di diritto penale all'Università di Bologna. Manes è stato
protagonista di importanti decisioni della Corte costituzionale: caso Dj Fabo, ergastolo
ostativo e permessi premio, applicazione retroattiva della “spazzacorrotti",
e la nota sentenza Taricco.
Professor Manes
possiamo dire che questa ultima decisione della Consulta non è entusiasmante
per le garanzie degli imputati?
Scontato che occorra attendere le
motivazioni per poter dare un giudizio. Ma la decisione di infondatezza della
questione è già chiara, e segna un arretramento importante sul piano delle
garanzie in materia penale, e del principio di irretroattività. L’emergenza che
stiamo vivendo non può giustificare – in uno Stato di diritto – una deroga a
principi fondamentali come l’irretroattività del reato e della pena.
Quali erano
le ragioni principali a sostegno della illegittimità costituzionale?
L’Unione delle Camere penali ha condotto
una autentica battaglia di civiltà sulla prescrizione, e sulle sue ragioni di
garanzia, perché un ordinamento civile ripudia l’idea di un processo senza
fine. In relazione al caso specifico, le ragioni che hanno determinato
l’intervento a titolo di amicus curiae
sono la ritenuta contrarietà a Costituzione di una modifica sfavorevole del
regime di prescrizione con effetti retroattivi, appunto perché questa –
incidendo sulla punibilità con effetti peggiorativi per l’imputato - violerebbe
la superiore garanzia di irretroattività, da sempre ritenuta inderogabile nella
giurisprudenza costituzionale, ed applicabile appunto all’istituto della
prescrizione, che la stessa giurisprudenza della Consulta riconosce di “natura
sostanziale”, cioè sostanza della legalità penale e non semplice morte del
processo.
Se è così, il legislatore avrebbe potuto e
dovuto trovare altre soluzioni per garantire la prosecuzione dell’attività
giudiziaria, diverse dall’addossare all’imputato una protrazione temporale
della sofferenza processuale, perché così facendo – riparandosi dietro
all’emergenza - ha compiuto una scelta di campo statocentrica, noncurante dei
diritti fondamentali. Il rischio, peraltro, è che le eccezioni si trasformino
in regola: e del resto l’ultimo DPCM ha previsto nuove ipotesi di sospensione,
a dimostrazione che – in un contesto di emergenza che va purtroppo
stabilizzandosi – le misure eccezionali e derogatorie tendono a consolidarsi, a
tutto scapito della tenuta dello Stato di diritto.
Il giudice
Nicolò Zanon non scriverà la sentenza, pur essendo il relatore del
procedimento, perché in dissenso con la decisione della Camera di Consiglio.
Nel nostro sistema di giustizia
costituzionale non è ammessa l’opinione dissenziente, e l’unico strumento che
il relatore ha di manifestare il proprio dissenso è, appunto, quello di
rinunciare a redigere le motivazioni: del resto, sarebbe difficile motivare
qualcosa in cui non si crede. Chiaramente è il segno di una divisione
all’interno del collegio, ed a mio avviso il meccanismo delle opinioni separate
- concordanti o dissenzienti –
garantirebbe maggior trasparenza alla decisione, lasciando emergere anche
posizioni che oggi sono rimaste minoritarie ma che domani, magari, potrebbero
diventare maggioritarie.
Qualcuno
sostiene che la Consulta stia prendendo sul fronte delle garanzie e dei diritti
degli imputati e dei detenuti un orientamento diverso rispetto a quello
riscontrato durante la presidenza di Marta Cartabia.
Mi sembra francamente una valutazione
opinabile, se non arbitraria. A prescindere dall’incidenza che le Presidenze –
specie quelle molto brevi – possono avere sugli orientamenti della Corte, ogni
questione è diversa dall’altra, ogni generalizzazione fuorviante, e mi
sembrerebbe approssimativo “etichettare” una o l’altra stagione in un senso o
nell’altro: certo durante le presidenze Lattanzi e Cartabia vi sono state
decisioni storiche della Corte in punto di laicità del diritto penale (pensiamo
al caso Cappato del “fine vita”) e di garanzie fondamentali (pensiamo alle
decisioni rese nella “saga Taricco”, alla decisione che ha esteso il principio
di irretroattività a talune norme dell’ordinamento penitenziario, come il
famigerato 4 bis, alla sentenza sull’ergastolo ostativo). Ma non sono mancate –
ieri come oggi - decisioni francamente più opinabili, ed apertamente criticate
in dottrina, come quella sulla confisca urbanistica o sulla rinnovazione
dell’istruttoria dibattimentale in caso di mutamento del collegio.
Certo le decisioni più recenti sembrano
dimostrare minor rigore nella verifica di legittimità: e l’auspicio,
ovviamente, è che la Corte si impegni a promuovere sempre una concezione “alta”
della Costituzione e del proprio ruolo, che è quello di argine
antimaggioritario a difesa dei diritti e delle libertà, anche nei contesti di
emergenza.
In pochi
giorni la Corte costituzionale ha promosso leggi fortemente volute da Salvini e
Bonafede: "decreto antiscarcerazioni", retroattività del blocco della
prescrizione, inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con l’ergastolo.
La Consulta è un organo giurisdizionale neutro o qualche volta può prevalere
l'aspetto politico?
La Corte costituzionale è un organo
tecnico, ma a composizione mista “tecnico-politica”: sarebbe ingenuo pensare
che le valutazioni politiche non entrino affatto nel giudizio, ma sarebbe
altrettanto azzardato – e forse ingeneroso – pensare che queste assumano un peso
dirimente.
L’impressione è che ragioni di Realpolitik
spesso contino di più delle ragioni di politica tout court, e che le prime
possano persino fare premio sulle concezioni della Costituzione e della
giustizia costituzionale alle quali ciascun giudice si riporta. Questo, a mio
avviso, il rischio maggiore dal quale un tribunale costituzionale dovrebbe
cercare di guardarsi, sforzandosi di astrarsi dalla contingenza e – per quanto
possibile - di “schivare il concreto”: anche a costo di essere inattuali oggi
per poter essere attuali domani.
Qual è il suo
giudizio in merito alle novità introdotte dal Ministro Bonafede nel dl ristori
e nel ristori bis?
Premesso che la scelta di limitare le
occasioni di presenza fisica nelle aule dei tribunali è una esigenza comune a
tutti, la possibilità di svolgere udienze e camere di consiglio da remoto,
soprattutto quelle affidate al giudice collegiale, suscita perplessità, perché
rischia di mortificare una giurisdizione di fondamentale importanza come la
Corte d’Appello: un giudice a cui è assegnato un compito di valutazione critica
anche e soprattutto in ordine al merito dei fatti contestati che dovrebbe
implicare collegialità reale e contraddittorio in presenza come regole non
derogabili.
Bonafede ha
introdotto anche delle misure per sfoltire la popolazione carceraria. Molti,
tra cui il Partito Radicale, il Garante, Antigone chiedono azioni più incisive.
Lei cosa pensa?
Penso che di fronte ad una emergenza come
quella che stiamo vivendo vi sarebbero mille ragioni per un provvedimento di
clemenza collettiva, che del resto potrebbe essere giustificato non solo
dall’emergenza sanitaria nelle carceri ma già da una considerazione complessiva
della giustizia penale italiana, dove si punisce moltissimo in astratto e si
persegue moltissimo - ed in modo spesso indiscriminato - in concreto.
La giustizia penale è una risorsa scarsa,
e come tale andrebbe concepita e gestita; il carcere – come vuole la
Costituzione – deve essere davvero l’extrema
ratio, giustificabile solo quando altre misure risultino inadeguate: ma
siamo purtroppo a distanza siderale da questo orizzonte culturale, e la
stagione del “populismo penale” – con un impeto punitivo impulsivo e compulsivo
- ha esasperato ancor più questo declino.
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