Magistrati sedotti dalla carriera Basta con la politica del potere
di Angela Stella Il Riformista 19 giugno 2020
Dallo scandalo del Csm allo
scontro Di Matteo Bonafede, passando per l'abuso delle intercettazioni e una
pessima narrazione del problema carcere. Una lunga intervista a Riccardo De
Vito, Presidente di Magistratura Democratica.
Il Presidente Mattarella in un duro intervento ha parlato ieri di
"grave distorsione sviluppatasi intorno ai criteri e alle decisioni di
vari adempimenti nel governo autonomo della Magistratura".
Occorre prestare la massima
attenzione alle parole del Presidente. L’immagine della magistratura che
affiora dalle indagini perugine è desolante. Emergono fenomeni di clientelismo
e collateralismo con la politica che, per numero e varietà dei soggetti
coinvolti, assumono dimensioni inquietanti. È chiaro che l’episodio più grave
di questo scandalo – l’incontro all’Hotel Champagne, dove magistrati e politici
indagati decidevano insieme le nomine dei dirigenti preposti ai loro processi –
non è frutto del caso, ma di un humus profondo o, quanto meno, dell’incapacità
dell’associazionismo giudiziario di produrre antidoti sufficienti alle prassi
consociative e spartitorie. È una
constatazione amara, che impone risposte ineludibili.
Esiste a suo giudizio un rimedio alle degenerazioni correntizie della
magistratura?
Il velo squarciato, per così
dire, mette in evidenze che l’associazionismo giudiziario, da fattore di
emancipazione della magistratura dalla sua condizione di subalternità alla
politica, come era negli anni Settanta, corre sempre più il rischio di
trasformarsi in fattore oppressivo, rivolto a domesticare l’indipendenza
interna ed esterna.
Non è ancora tutto perduto?
Utilizzo l’espressione corre il rischio perché credo che siamo
ancora in tempo per cambiare il corso delle cose ed evitare regolamenti di
conti che mettano la mordacchia all’indipendenza dei giudici e disallineino
l’assetto della magistratura dal disegno costituzionale. Ci sono tanti colleghi
che sono impegnati nella politica giudiziaria dentro i gruppi, e fuori di essi,
in nome di valori e non di convenienze. Come ha detto il Presidente Mattarella
la gran parte della magistratura non rispetta la 'modestia etica' uscita dalle
chat. Le risposte sono ora obbligate: nessuna copertura corporativa ai fenomeni
degenerativi; impegno e partecipazione nei luoghi dell’elaborazione comune, a
partire dall’associazione nazionale; coerenza tra predicato e praticato.
Secondo lei come andrebbe riformato il Csm?
Non credo che sia la modifica del
sistema elettorale a poter modificare le cose. Certo la magistratura è ben
disposta a rivedere l’attuale legge elettorale che, costruita per spazzare via
le correnti, le ha invece rese, allo stesso tempo, più forti e peggiori. Il sistema elettorale, comunque, di per sé
non è in grado di impedire o di promuovere il cambiamento. Per capire come è
cambiato il governo autonomo, infatti, dobbiamo guardare a cosa succede dentro
la magistratura, sedotta di nuovo dal sogno verticale della carriera, della
dirigenza e delle funzioni superiori. Un sogno burocratico e funzionariale, ma
che incide sul corpo collettivo e fornisce le basi materiali alle derive
clientelari, oltre che alle prassi di conformismo giudiziario e di soggezione
interna e esterna.
E quindi cosa si fa?
L’azione di riforma, pertanto,
deve andare alla radice del problema. La magistratura deve farsi carico di una
decomposizione, per usare un concetto caro a Franco Cordero, del potere dei
capi, per riportare la democrazia negli uffici, ricostruire l’indipendenza
interna ed esterna, sdrammatizzare il
problema delle nomine. A quel punto, in luogo della politica del potere, potrà
ripartire la politica delle idee. Su
questo Magistratura democratica si sta impegnando, non senza la dovuta
autocritica, che dovrà continuare accanto al progetto.
Una questione fortemente dibattuta è quella delle intercettazioni.
Si tratta di un problema che la
magistratura ha a cuore, come dimostrato dalla delibera del Csm del luglio 2016,
dedicata alla Ricognizione di buone prassi in materia di intercettazioni di
conversazioni. Si tratta di una circolare che, nel recepire quanto scritto
nelle circolari di alcune procure, aveva
elaborato linee guida generali per tutelare la riservatezza delle persone
(soprattutto quelle non coinvolte nella vicenda penale), proteggere i dati
sensibili e contemperare tali esigenze con le garanzie difensive e con il
diritto all’informazione. Alcuni passi avanti sono stati fatti, dunque, e ora
occorre mettere in atto e implementare quanto previsto dalla legge delega del
2017 e dai due successivi decreti delegati, del 2017 e del 2019, a partire
dalla conservazione delle registrazioni dei verbali e degli altri atti in un
archivio gestito e sorvegliato dal Procuratore della Repubblica.
In queste ultime settimane abbiamo assistito, soprattutto nella
trasmissione condotta da Massimo Giletti, ad una resa dei conti all’interno
della magistratura. Qual è il suo parere su questo?
Credo che il magistrato sia
libero di intervenire nel dibattito pubblico. Ma deve farlo a una condizione:
spogliarsi del tentativo di coprire argomenti squisitamente politici con
l’autorevolezza o l’autorità che deriva dalla toga ed evitare di parlare di
vicende processuali in corso da lui gestite.
Altrimenti il cortocircuito istituzionale è dietro l’angolo: a cosa dare
credibilità? Agli atti giudiziari e istituzionali o alle suggestioni
televisive? Questo discorso vale tanto più per magistrati che, oltre alla toga,
ricoprono ruoli istituzionali in autogoverno. Per questo trovo pericoloso il
sentiero sul quale si è incamminato il collega Di Matteo.
Ieri Di Matteo è stato audito in Commissione Antimafia. Cosa lo ha
colpito del suo discorso?
Ancora una volta l'insistenza su
suggestioni non verificabili e che verrebbero imposte al dibattito pubblico
solo attraverso la credibilità della
toga e non in forza di un articolato ragionamento sui fatti. Le detenzioni domiciliari ad esempio non sono un
segnale di cedimento alla criminalità organizzata ma esprimono la forza dello
Stato di Diritto.
E quale il suo giudizio su come la stampa tratta il tema giustizia?
Ho profondo rispetto per la
stampa, che comunque costituisce il sale della democrazia. Nel trattare di
giustizia credo cha a volte sia forte una tentazione inquisitoria: si parte da
una tesi, e si cercano argomenti per confermarla. Un certo giornalismo per
tesi, nemico del giornalismo d’inchiesta, ha preso piede su più argomenti.
L’informazione sul carcere, in questo senso, è spesso significativa. A partire
dall’uso delle parole: il ritardato rientro dal permesso viene definito
evasione; la detenzione domiciliare umanitaria viene definita scarcerazione. Mi
rendo conto, però, che spesso la stampa racconta un linguaggio parlato da
altri, in primo luogo da autorevoli esponenti della magistratura, le cui
dichiarazioni lasciano a volte esterrefatti.
Con l’aria che tira è difficile pensare ad una seria riforma del
carcere. Ma lei sarebbe d’accordo ad un provvedimento strutturale di amnistia e
indulto?
Sono d’accordo con le conclusioni
di un convegno promosso dalla Società della Ragione, nel 2018 e che ora trovano
spazio nel disegno di legge costituzionale n. 2456, a prima firma dell’on.
Magi. In sintesi, direi che ora
l’obiettivo principale è quello di ridare agibilità costituzionale e
praticabilità politica agli istituti clemenziali, agendo su più fronti: stretta
correlazione di tali istituti con i principi costituzionali di finalismo
rieducativo e umanità della pena, con scomparsa dall’atlante delle clemenze di
tutti quei provvedimenti che non siano collegati a situazioni straordinarie
(vedi Covid) o a ragioni eccezionali (vedi riforme di sistema del processo o
del diritto penale); massima pubblicità della discussione parlamentare e
garanzia del controllo di costituzionalità sui presupposti. A queste condizioni, ben venga la riduzione
del quorum di approvazione dai due terzi alla maggioranza assoluta delle
assemblee parlamentari. Occorre portare alla luce le discussioni su questo
tema. Se la politica si assumesse le proprie responsabilità non avrebbe bisogno
di costruire la categoria del tutto fasulla dei giudici scarceratori.
Il Procuratore Gratteri in una intervista domenica al Fatto Quotidiano
ha detto: “Le rivolte nelle carceri sono state possibili e così devastanti
proprio per le celle aperte e la promiscuità praticata negli istituti”.
Vorrei prima di tutto evidenziare
cosa c’è stato e cosa c’è dopo e davanti le rivolte in carcere: quattordici
morti tra le persone detenute, le cui identità e storie personali sono state
oscurate, ridotte a mera contabilità. Su
questi fatti, i più gravi della storia del carcere nel nostro Paese, è calato
il silenzio delle istituzioni, della politica e dei giornali. Nessuno ne ha
chiesto conto alle istituzioni, fatta eccezione per la stampa militante e per
pochi altri soggetti, tra cui credo sia
importante ricordare i garanti, nazionali e territoriali. La critica pubblica,
al contrario, è stata convogliata sulle detenzioni per ragioni di salute (vero
nome di quelle che, con inaccettabile semplificazione, vengono chiamate
scarcerazioni) e sulla circolare relativa alla segnalazione di detenuti con
patologie tali da renderli più vulnerabili in caso di contagio da Sars-Cov-2.
Quali le conseguenze?
Il risultato di questa
operazione, da un punto di vista simbolico, è chiaro e grave: il disumano, la
morte in carcere, viene ridotto a normalità, a un rischio collaterale
accettabile, di cui nessuno è tenuto a rispondere; l’umano – inteso anche come
principio giuridico stringente, visto che di senso di umanità parla l’art. 27
della Costituzione –, viceversa, assume i contorni dell’illegittimità. Un mondo
capovolto, dunque, rispetto a quello disegnato dalla Costituzione e
dall’ordinamento penitenziario.
Tornando alle rivolte?
Tra le varie cause delle rivolte
– difetto di comunicazione sui colloqui telematici con i familiari,
impreparazione del penitenziario a difendersi dal virus – non mi sento di
annoverare il regime di celle aperte. L’esperienza quotidiana mi porta anzi a
constatare che laddove ci sono sorveglianza dinamica, celle aperte e presa in
carico trattamentale gli episodi disciplinari e violenti diminuiscono in
maniera sostanziosa. Questo vale soprattutto per i circuiti di Alta Sicurezza,
dove il problema della pericolosità sociale è soprattutto rivolto all’esterno,
ma non all’interno del carcere. Dunque mettere in correlazione le rivolte e il
tasso di provvedimenti disciplinari con i regimi aperti mi sembra un’operazione
non sorretta da basi empiriche sufficienti. Sicuramente è un’operazione che ha
un obiettivo: rendere il carcere meno trattamentale e responsabilizzante e più
custodiale e duro. Una scommessa pericolosa per tutti, in primo luogo per la
sicurezza collettiva.
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