She said

 Valentina Stella Dubbio 2 maggio 2023

Nel febbraio 2020, una giuria di New York ha giudicato Harvey Weinstein, il produttore i cui film hanno vinto decine di Oscar, colpevole di violenza sessuale e stupro. L’anno scorso, due anni e mezzo dopo, è finito di nuovo sotto processo, in California, con altre undici accuse. I giurati di questo processo hanno ricevuto un'istruzione particolare: il giudice ha impedito loro di guardare il trailer di “She Said” (regia di Maria Schrader, prodotto dai premi Oscar Brad Pitt, Dede Gardner e Jeremy Kleiner), da poco in programmazione su Sky Italia col titolo “Anche io”, la traduzione letterale di #metoo, movimento femminista nato del 2017 per denunciare soprattutto molestie e violenze sul posto di lavoro. La sentenza è stata comunque a sedici anni di prigione al termine del secondo processo nei suoi confronti per molestie e stupri: l'ex re di Hollywood finirà i suoi giorni dietro le sbarre. Ma torniamo al film: si tratta dell’adattamento cinematografico dell'omonimo libro di saggistica “She Said: Breaking the Sexual Harassment Story That Helped Ignite a Movement”. In esso, vediamo le giornaliste del New York Times Jodi Kantor e Megan Twohey costruire faticosamente e meticolosamente il reportage che le ha portate a pubblicare una serie di articoli che descrivevano il comportamento di Weinstein. Per la loro inchiesta su Harvey Weinstein e gli abusi sessuali a Hollywood hanno ricevuto il Premio Pulitzer per il miglior giornalismo di pubblico servizio. Come riporta la sinossi del libro “per molti anni, i giornalisti avevano cercato di arrivare alla verità sul trattamento riservato alle donne da parte di Harvey Weinstein. Voci di illeciti circolavano da tempo. Ma nel 2017, quando Jodi Kantor e Megan Twohey hanno iniziato la loro indagine sull’importante produttore di Hollywood per il New York Times, il suo nome era ancora sinonimo di potere”. Tutto cambia nel 2016, quando Twohey (Carey Mulligan) sta facendo un servizio sulle donne che affermano che Donald J. Trump le ha aggredite e Kantor (Zoe Kazan) sta scrivendo sui rifugiati siriani. Quando Kantor si rende conto che un tweet dell'attrice Rose McGowan potrebbe riferirsi a Weinstein, inizia a sondare la storia. Incoraggiata dalla loro redattrice, Rebecca Corbett, collabora con Twohey. Il film si concentra sulla paziente raccolta di testimonianze e conferme. Ad un certo punto compare, nel rappresentare sé stessa, persino la nota attrice Ashley Judd. La pellicola a volte può apparire lenta ma mostra perfettamente quanto cura occorra ad un giornalista per pubblicare una inchiesta. Weinstein era sfuggito allo scandalo in passato e non sarebbe caduto senza combattere; ha assoldato una squadra di avvocati di alto profilo, investigatori privati e altri alleati per contrastare le indagini. Le due reporter però non si sono fatte intimorire e hanno cercato di convincere un gruppo eterogeneo di attrici ed ex dipendenti a parlare, rintracciando al contempo la documentazione (accordi di transazione, lettere al consiglio d'amministrazione) che comprovava le loro denunce di aggressione. La ricerca è supportata anche da due fonti molto importanti: una all'interno della Weinstein Company, l’altra di un avvocato di Weinstein. Quando Kantor e Twohey sono state finalmente in grado di convincere alcune fonti a registrare, è stata avviata una drammatica resa dei conti finale tra il giornale e Weinstein. Di quest’ultimo o meglio dell’attore che lo interpreta - Mike Houston -  si sentirà solo la voce al telefono quando gli verrà chiesto un commento alle storie raccolte e poi lo vedremo solo una volta di spalle, quando si recherà nella redazione del giornale. Dunque il protagonista cattivo è fuori campo, mentre sulla scena principale ci sono le donne  le giornaliste e le vittime – . Queste sono restie ad esporsi, hanno paura, temono di non essere credute. Per convincerle  Twohey usa con loro queste parole: “Non posso cambiare quello che ti è successo in passato, ma insieme potremmo usare la tua esperienza per aiutare a proteggere altre persone”. Come sottolineato in una review proprio del New York Times il film “non si presenta come un manifesto. Al posto del femminismo sfrenato, il film sottolinea la decenza, la perspicacia e il rigore”. Questo è il lato apprezzabile del prodotto, volto più a valorizzare la qualità del giornalismo investigativo – come abbiamo già visto fare in “Spotlight”, “Tutti gli uomini del presidente” e “The Post” – che le urla e i pugni tesi delle femministe in piazza. Per quanto concerne in generale il fenomeno del #metoo ricordiamo cosa scrisse a tal proposito Philip Roth, anch’egli travolto post mortem da questa ondata populista con accuse generiche e poco sostanziate: “Io presto ascolto al grido delle donne offese e ferite. Non provo altro che solidarietà per il dolore e la loro richiesta di giustizia. Ma mi rende ansioso la natura del tribunale che si sta pronunciando su quelle loro accuse. Mi rende ansioso, in quanto libertario e sostenitore dei diritti civili, perché non mi sembra un vero tribunale. Quello che invece vedo sono accuse rese istantaneamente pubbliche e subito seguite da un castigo perentorio. Vedo che all’accusato viene negato il diritto all’habeas corpus, il diritto ad un confronto con chi lo accusa, e il diritto a difendersi in qualcosa che somigli a una vera corte di giustizia, dopo possono essere fatte distinzioni rigorose riguardo alla gravità del crimine riportato” (Blake Bailey, Philip Roth – La biografia, Einaudi, pagine 1030, euro 26). 

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