Intervista Aurora Matteucci

 Valentina Stella Dubbio 27 ottobre 2025

 

L’assoluzione prima e la condanna poi di un ragazzo per violenza sessuale a Macerata, balzata agli onori della cronaca una settimana fa, riaccende la polemica sul tema del consenso. Ne parliamo con l’avvocato Aurora Matteucci, già presidente della Camera penale di Livorno.

 

La proposta di legge Boldrini intende superare il concetto di violenza sessuale come atto necessariamente compiuto con l'uso di violenza o minaccia, stabilendo invece che integrano la fattispecie di violenza sessuale tutti gli atti sessuali compiuti o subiti in assenza di consenso. “Una norma prevista dalla Convenzione di Istanbul” ha specificato la parlamentare.  Lei cosa ne pensa?

 

Quella del consenso all’atto sessuale è questione molto complessa.  Per la Cassazione, ormai da anni, l’atto sessuale non consentito è reato, a prescindere dal fatto che ricorra una violenza fisica o psichica. Si è forzato, in palese violazione del principio di legalità, la lettera della legge limitata ai casi di costrizione mediante violenza, minaccia, abuso di autorità o di induzione con abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica o con inganno.  Ora, se è innegabile che latto sessuale non consentito sia una grave forma di violazione dellautodeterminazione, la supplenza interpretativa della magistratura non può essere una strada condivisibile.  In questo senso potremmo allora dire ben venga il legislatore a fare definitiva chiarezza.

 

Quindi ben venga la Boldrini?

 

La proposta di legge Boldrini desta, però, più di un dubbio. Si legge: “per consenso si intende quello espresso quale libera manifestazione di volontà della persona e che rimanga immutato durante l’intero svolgersi del rapporto sessuale. Il consenso deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto e può essere revocato dalla persona in qualsiasi momento e in qualsiasi forma”.  Sembra semplice. Ma non lo è. Intanto: che cosa si intende per revoca del consenso in qualsiasi forma? Locuzione imprecisa che aprirà la breccia alle interpretazioni più varie. Peraltro, la Convenzione di Istanbul non lo richiede.   Non solo. Provare l’esistenza del consenso, anche oggi, è impresa quasi impossibile, specie considerando che per evitare il rischio di vittimizzazione secondaria certe domande della difesa vengono interdette a priori.

In Germania si è deciso di incriminare gli atti compiuti contro la volontà riconoscibile di un’altra persona. Scelta più aderente alla realtà delle relazioni sessuali in cui è difficile immaginare formule sacramentali di consenso. Non solo: neppure c’è accordo sulla definizione di consenso.  

 

In che senso?

 

In apparenza sembra chiaro: “un sì è un sì”, “un no è un no”. 

E però, se il “no” è pacificamente un rifiuto, un “non sì” è automaticamente “un no”? Ancora: un “si” esprime sempre desiderio o anche un’accettazione? E, in questo caso, quando l’accettazione è la strada per evitare un male peggiore e quando, invece, è adesione passiva ad un atto non pienamente gradito ma tutto sommato ammesso?

 

Le norme penali possono davvero sciogliere e delineare tutte le ambiguità?

 

Se i confini epistemologici del consenso sono così difficili da individuare non è sufficiente normare le relazioni umane attraverso il diritto penale.    Parlare di consenso senza affrontare il contesto culturale rischia di svuotarne il significato lasciando le donne intrappolate dentro un ordine egemonico nel quale il “sì” potrebbe apparire “un guscio vuoto” (M. Garcia).

Questa assuefazione fideistica al potere taumaturgico-pedagogico del diritto penale ha prodotto e sta producendo solo danni - sul piano delle garanzie processuali, oggi ridotte al lumicino- senza alcuna reale capacità di debellare un fenomeno che è e resta grave. I fatti di cronaca ce lo ricordano impietosamente. La violenza maschile non arretra con la minaccia dell’ergastolo (vedi il nuovo ddl femminicidio).

Cosa fare allora?

 

Servono altri strumenti: denari, tanto per iniziare, e non riforme a costo zero; investimenti sul welfare; sforzi concreti per analizzare e sabotare un sistema culturale che ha fatto della subalternità delle donne la sua cifra e che si manifesta ancora attraverso il dominio maschile e la normalizzazione di logiche di possesso cui fa da pendant, va detto, una scarsa consapevolezza, da parte di molte donne, della propria autonomia sul piano sessuale e non solo.

 

Stiamo andando verso una sorta di burocrazia sessuale, per cui bisogna portarsi a letto un modulo e una biro?

 

Interpretazioni semplicistiche, che niente hanno a che vedere con analisi serie e rigorose dei fenomeni sociali, rischiano di produrre, in effetti, storture macchiettistiche.

 

Nei casi di violenza di genere si parte dal presupposto che la presunta vittima abbia sempre e comunque ragione. C'è qualcosa di sbagliato in questo pensiero?

 

Siamo passati da una legislazione aberrante - la violenza sessuale come crimine contro la moralità e il buon costume, il matrimonio riparatore etc- ad una reazione scomposta che oggi pretenderebbe di tradurre nel processo penale lo slogan “sorella io ti credo”. La Cassazione riconosce una presunzione di veridicità del narrato della persona offesa. Ma nessuna norma lo prevede. Per giunta, presumere la veridicità di una denuncia o di una dichiarazione contrasta platealmente con la presunzione di innocenza. Se presumo che quello che racconti è vero devo presumere, necessariamente, che l’imputato sia colpevole.

 

Quali sono le conseguenze sul processo penale?

 

Un avvitamento pericoloso sulle garanzie processuali. Per inciso: maggiori sono i rischi sul piano della reazione penale (pensiamo al rischio di un ergastolo) e maggiori dovrebbero essere le garanzie per approdare a sentenze giuste.

 

Ormai sempre di più assistiamo a pesanti critiche nei confronti di giudici che derubricano o assolvono in casi di maltrattamenti, stupri e reati simili. Qual è il rischio sotteso?

 

Anzitutto nella stragrande maggioranza dei casi le critiche provengono da persone che non leggono le sentenze. I media hanno una grande responsabilità scagliandosi contro singole parole di sentenze che, lette per intero, assumono ben altro significato. Criticare una sentenza è lecito. Ma la decisione è la sintesi di un processo i cui atti sono per lo più sconosciuti. Occorre maggiore prudenza. Il rischio è quello di minare la serenità dei giudici.

 

Secondo lei c'è un problema di scrittura delle sentenze?

 

Talvolta sì. Ma ribadisco: vanno lette per intero. Ad esempio: sentenza di Macerata. In questo caso la decisione dell’assoluzione poggia su molte ragioni che riesce davvero difficile affermare che l’imputato sia stato assolto perché la ragazza aveva già avuto rapporti sessuali in precedenza. 


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