Kaili: in carcere per confessare?

 

Valentina Stella Il Dubbio 7 gennaio 2023

«Mi sono fatto l’idea che probabilmente non le permettevano di vedere la bambina per farle pressione affinché confessasse, ammettesse di aver commesso qualcosa. Ma la signora Kaili non ha nulla da confessare perché è completamente estranea a ogni genere di accusa»: così in una intervista al Corriere della Sera Michalis Dimitrakopoulos, l’avvocato di Eva Kaili, l’ex vicepresidente del Parlamento europeo in carcere da 29 giorni con l’accusa di associazione criminale, corruzione e riciclaggio di denaro nell’inchiesta soprannominata Qatargate. Siamo in presenza, dunque, di una sorta di ricatto? Il legale sostiene che “il giudice istruttore che sta investigando sul caso, il signor Michel Claise, ha affermato di non avere le prove che sostengono l’accusa di corruzione contro Eva Kaili”, eppure resta in custodia cautelare. La si vuole piegare per farla parlare e accusare sé stessa ed altri? E questa è una prassi comune? In Italia qualcuno sostiene di sì, soprattutto i critici di Mani Pulite e dell’operato della Procura di Milano da cui tutto avrebbe avuto origine. Come disse l’ex magistrato Luca Palamara durante l’evento “A Trenta anni da Tangentopoli e da mafiopoli –  Ruolo politico anomalo della magistratura non in linea con la Costituzione per configurare una fantomatica Repubblica giudiziaria”, promosso dal Centro Studi Leonardo Da Vinci e dall'Associazione Riformismo e Libertà: “tanti dovevano parlare per uscire, durante gli interrogatori bisognava fare questo o quel nome: una prassi che purtroppo poi si è protratta molto nel sistema giudiziario italiano, da Tangentopoli a Mafiopoli”. Nulla di male per l’allora procuratore capo Francesco Saverio Borrelli: “Ma in fin dei conti, è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?”. Dunque il fine che giustizia i mezzi. Come avallato anche dalla Corte di Cassazione che “affermò – ricordava dalle pagine del Riformista Astolfo di Amato - che era certamente illegittimo ricorrere al carcere per estorcere delle confessioni, ma che, al tempo stesso, era pienamente giustificato liberare le persone quando avessero confessato, perché la confessione avrebbe segnato il distacco dal contesto corruttivo, in cui avevano operato. Quindi, non sei in carcere per confessare, ma se confessi ti liberiamo. E così avvenne che le carcerazioni duravano fino alla confessione, autentica o costruita che fosse”. Eppure “Giuliano Spazzali, avvocato di formazione comunista e difensore di Sergio Cusani, ha riassunto a modo suo: Mani pulite è cresciuta enormemente tutta sulle confessioni degli indagati: e non è una buona inchiesta, quella che si fonda non sulle indagini, ma sulle confessioni” (tratto da Filippo Facci, La guerra dei trent’anni, Marsilio Editore). L’ex magistrato Gherardo Colombo che di quella stagione fu uno dei protagonisti ha sempre respinto le accuse di abuso della carcerazione preventiva: “Per anni  - disse a La Stampa - siamo stati accusati di aver abusato della custodia cautelare, di averla usata per “far parlare”. Ma mettiamoci di fronte alla gravità dei reati che via via scoprivamo, al pericolo concreto di inquinamento della prova e di reiterazione dipendente dall’esistenza di un vero sistema di corruzione legato al finanziamento illecito, e paragoniamo la mole delle nostre richieste al giudice perché applicasse la custodia cautelare con il numero delle persone quotidianamente arrestate a Milano per reati di strada; consideriamo quanta documentazione abbiamo raccolto sui reati contestati; osserviamo quante volte la corte di Cassazione ha censurato i provvedimenti del gip (non ne ricordo) e forse si vede il tutto con occhi diversi”. Per poi ammettere anni dopo: “in Italia si abusa della custodia cautelare, spesso al di fuori del dettame costituzionale degli articoli 13 e 27 della nostra Carta fondamentale, quelli che parlano dell’inviolabilità della libertà personale e della non colpevolezza fino a sentenza definitiva”. E proprio contro l’abuso della custodia cautelare il Partito Radicale lo scorso anno aveva lanciato un referendum, insieme alla Lega, che però non ha raggiunto il quorum. Ma è un fenomeno tutto italiano? A quanto pare no. Basti guardare i dati di uno studio effettuato nel 2018 dall’ Observatoire Régional de la Délinquance et des Contextes Sociaux. Come spiegò Sacha Raoult, docente in scienze criminali all'Università di Aix-Marsiglia e coautore del rapporto “Faut-il avouer pour sortir de détention provisoire?” basato su 117 casi di indagati a Marsiglia, “dei quindici criteri addotti dai giudici per giustificare la loro decisione di far uscire un detenuto per revisione giudiziaria, la confessione è il criterio più potente. Ciò che è molto impressionante è che senza una confessione non c'è quasi nessuno che esca dalla carcerazione preventiva. Non è assolutamente così per gli altri criteri (gravità del reato, precedenti penali, piano di lavoro, ecc.). Dei 117 fascicoli da noi esaminati, solo due sono riusciti a uscire senza aver riconosciuto i fatti di cui erano accusati. Quindi sì, è meglio confessare per uscire dalla custodia cautelare”. Pertanto anche Oltralpe la confessione si dimostra strumento quasi unico per riottenere la libertà. Ma la domanda successiva è: si sono confessati crimini commessi o non commessi?

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