Suicidio a Rebibbia

 di Angela Stella Il Riformista 10 agosto 2021


Qualche giorno fa nel carcere romano di Rebibbia L., un detenuto italiano di 52 anni con problemi psichiatrici, si è suicidato dopo essersi coperto la testa con una busta e aver inalato del gas, proprio nel giorno del suo compleanno. A rendere nota la notizia è stato Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria. Un episodio che restituisce alla mente il ricordo di un altro tragico suicidio: quello di Marco Prato, il giovane pierre capitolino arrestato insieme con Manuel Foffo per l'atroce delitto di Luca Varani. Nel 2017  il ragazzo, con precedenti tentativi di suicidio alle spalle, si era recato nel bagno della sua cella di Velletri, aveva infilato la testa in un sacchetto di plastica e aveva respirato il gas contenuto nella bombola per cucinare che è in dotazione ai detenuti.   Questo tragico evento riporta all'attenzione, dunque, due problemi: quello dei suicidi in carcere e quello della salute mentale negli istituti di pena. Sul primo fronte il ministro  della Giustizia Marta Cartabia ha chiesto al Dap un rapporto sulle cause del fenomeno – già 32 suicidi dall’inizio dell’anno, 62  nel 2020 -  decisa a migliorare le condizioni di vita dei detenuti e di chi nelle carceri ci lavora. Ma tornando al drammatico episodio di cronaca penitenziaria, uno sguardo più da vicino lo ha fornito Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio, che sabato scorso si è recato a Rebibbia a parlare con i detenuti che insieme ad altre decine di reclusi «hanno inviato al sottoscritto, alla Garante comunale, al Garante nazionale, e poi al Tribunale di sorveglianza, alla Direzione del carcere, al Provveditorato, al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e alla Ministra Cartabia un reclamo, in cui – sgomenti per la morte di L. - denunciano lo stato di trascuratezza in cui versa quell’Istituto, che pure fu fiore all’occhiello della riforma penitenziaria, della legge Gozzini e della illuminata gestione dell’Amministrazione penitenziaria da parte del compianto Nicolò Amato». Prosegue Anastasia: «sono in corso le indagini della Procura sulle circostanze della morte, e la Asl sta ricostruendo l’assistenza che gli era prestata in questi anni nella sezione dei cd. “minorati psichici”, secondo la terminologia pre-basagliana ancora in uso nell’Amministrazione penitenziaria, ma – fughiamo subito il campo dagli equivoci – Luciano non doveva stare in Rems, o almeno non ancora: riconosciuto semi-infermo di mente, aveva da fare ancora sette anni in carcere, prima di essere destinato in una Residenza per le misure di sicurezza. Forse avrebbe potuto essere ammesso a un’alternativa terapeutica, secondo quanto stabilito dalla Corte costituzionale nella sentenza 99/2019, redatta dall’allora giudice costituzionale Marta Cartabia, ma non ho notizie che un’istanza in tal senso sia mai stata fatta ai giudici di sorveglianza».  Per l'avvocato Vincenzo Comi, Presidente della Camera Penale di Roma: «È inaccettabile e sconvolge (ma non stupisce più purtroppo)» questo suicidio. «Noi avvocati romani - prosegue -  viviamo sulla nostra pelle la situazione delle carceri nel Lazio. Le condizioni sono disumane per il sovraffollamento e le strutture sono insufficienti a tutelare le persone malate che vengono abbandonate nelle celle in attesa di quel miraggio delle Rems  che, se ha sopito la coscienza di qualcuno, ha solo creato aspettative di un posto che non ci sarà mai. Intervenga subito la Ministra Cartabia per fermare questa tragedia affinché venga assicurata una adeguata assistenza sanitaria in carcere e ripristinata la legalità della pena». Il problema dei malati psichiatrici in carcere è al centro di un appello lanciato dal Partito Radicale proprio negli ultimi mesi, in quanto circa quattro detenuti su dieci hanno problemi psichiatrici: « Nei 109 istituti di pena italiani il  78% dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui per il 41% da una patologia psichiatrica. Dall’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone del 2020 risulta che, nei 98 istituti visitati, il 27% dei detenuti è in terapia psichiatrica (Spoleto il 97%, a Lucca il 90%, a Vercelli l’86%) e il 14% dei detenuti è in trattamento per dipendenze. La normativa italiana è ferma a quanto prescritto dal Codice Rocco del regime fascista, risalente a ben 91 anni fa; le norme relative alla imputabilità, alla pericolosità sociale, sono del 1930 e sono ancora in vigore, nonostante siano profondamente mutate le conoscenze scientifiche in ambito psichiatrico». Ad esempio, secondo gli articoli del Codice Rocco tuttora vigenti, e altamente criticati, nel caso di totale incapacità di intendere e volere, definita attraverso perizia, il giudice stabilisce che la persona non è imputabile e la proscioglie: non si riconosce alla stessa una responsabilità personale ma è la malattia che ha condizionato e determinato il reato. La persona viene sottoposta alla misura di sicurezza detentiva nell'Opg a tempo indeterminato, vanificando il fine rieducativo della pena e il reinserimento sociale. I cosiddetti ergastoli bianchi. Su questo tema giace in Parlamento una proposta di legge  presentata dall'onorevole Riccardo Magi di + Europa. 


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