Intervista a Pietro Pietrini
di Valentina Stella Il Dubbio 19 agosto 2021
È possibile
identificare dei fattori biologici e mentali alla base di comportamenti
criminali? E se sì, che effetto avrebbe questa scoperta sulla imputabilità
dell'individuo? Come riscrivere lo scopo della pena per un individuo
'determinato' alla violenza? Ne parliamo con lo psichiatra di fama
internazionale Pietro Pietrini, Direttore presso la Scuola IMT Alti Studi di
Lucca. Il suo nome è legato al caso di Stefania Albertani, dichiarata
colpevole, nel maggio 2011 con rito abbreviato, per omicidio e occultamento di
cadavere della sorella, e per il doppio tentativo di uccisione di entrambi i
genitori. La pena comminata fu di venti anni di reclusione invece che
l’ergastolo, essendo stato riconosciuto un vizio parziale di mente anche per la
presenza di «alterazioni» in «un’area del cervello che ha la funzione» di
regolare «le azioni aggressive» e, dal punto di vista genetico, di fattori
«significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo,
aggressivo e violento». La decisione fu supportata oltre che da accertamenti
psichiatrici tradizionali, anche da analisi neuroscientifiche, che indagarono
la morfologia del cervello e il patrimonio genetico dell’imputata. Si trattò di
uno fra i primi casi al mondo della validità delle neuroscienze per
l’accertamento dell’imputabilità. Il caso fu trattato anche sulla prestigiosa
rivista scientifica Nature. Oggi il professor Pietrini assiste Benno Neumair,
ma di questo parleremo in un'altra occasione.
In base alla sua esperienza, quali conclusioni si possono trarre in
merito al rapporto tra neuroscienze, responsabilità penale e imputabilità?
La valutazione
dell'imputabilità è conditio sine qua non perché possa esserci un giusto
processo. In termini giuridici stabilire l'imputabilità significa verificare se
il soggetto era capace di intendere e volere al momento della commissione del
reato. La capacità di intendere è quella di comprendere la natura delle azioni
che si compiono e le loro conseguenze, mentre la capacità di volere è quella di
controllo che l'individuo ha sulle proprie azioni. Secondo l'articolo 89 cp un
individuo non è imputabile anche se una sola delle due capacità viene meno.
Esiste anche la terza possibilità di una capacità di intendere o volere gravemente
scemata ma non totalmente abolita. In questo caso l'individuo è imputabile ma
ha diritto ad uno sconto di pena fino ad un terzo. Fatta questa premessa, il
ruolo delle neuroscienze è quello di cercare di dare il più possibile una base
oggettiva, un correlato misurabile alle conclusioni che si raggiungono in
termini di imputabilità. In sintesi: ridurre il margine di soggettività. Questo
perché in psichiatria forense manca ancora, rispetto alle altre branche della
medicina, la possibilità di avere un riscontro oggettivo. Non possiamo, ad
oggi, misurare la capacità di intendere e di volere, il libero arbitrio o la
capacità di autodeterminazione, come misuriamo la glicemia. Invece nel nostro
campo, possiamo trovare pareri anche diametralmente diversi sullo stesso
soggetto: quello del perito del giudice e quelli delle parti. L'obiettivo delle
neuroscienze diventa quello di integrare le tecniche ordinarie - il colloquio clinico, l’uso di test
psicometrici, la raccolta di dati amnestici - contribuendo al processo
diagnostico e riducendo la variabilità soggettiva di giudizio dei singoli
esperti. Oggi, ad esempio, grazie alle moderne tecniche neuroradiologiche,
abbiamo la possibilità di misurare la densità neuronale in aree del cervello
che sono cruciali per il controllo degli impulsi.
Una simile
informazione cosa rileva o non rileva ai fini del giudizio di imputabilità?
Le neuroscienze portano un contributo
complementare, integrativo. Nessuno di noi ha mai sostenuto che una persona non
è imputabile semplicemente perché presenta una ridotta densità neuronale nella
corteccia. Noi diciamo che, a riprova di quello che clinicamente abbiamo
riscontrato, nell'individuo vi è anche un correlato cerebrale o un rischio
genetico che offre un quadro completo della capacità dell'individuo. Nei casi
di patologia conclamata, come ad esempio un tumore in una certa area del
cervello, o una demenza frontale è certamente più facile stabilire l’esistenza
di una relazione causale tra la patologia e il comportamento tenuto dal
soggetto. Tuttavia, non sempre il giudice penale ritiene che la presenza della
patologia abbia esercitato un ruolo causale rilevante sulla condotta criminosa.
Non vi è nulla di deterministico. Tornando alla sua domanda: dipende dal tipo
di lesione e dalla sua reversibilità e dalla possibilità di controllare,
qualora non fosse rimovibile, gli effetti della lesione.
Però leggevo
su DirittoPenaleeUomo, sempre a proposito di un suo intervento, del caso di un
insegnante americano che a causa di un tumore ha iniziato a manifestare un
comportamento inopportuno, estremamente disinibito nei confronti prima delle
colleghe e, poi, anche dei suoi giovani allievi. Tolto il tumore, il paziente ha ripreso una vita normale e anche il suo
comportamento è tornato quello di un tempo.
In ambito
scientifico, questo si chiama “esperimento perfetto”, o test-retest. Come ho
detto in quell'occasione, quando vogliamo dimostrare che tra A e B c’è un nesso
di causa, si guarda innanzitutto se, in presenza di A, B compare; poi si toglie
A e si vede se anche B viene meno; infine, si mette nuovamente A e si verifica
se anche B ricompare. Il verificarsi di questa condizione consente di stabilire
il rapporto eziologico tra i due fattori con certezza pressoché assoluta.
Tuttavia, simili eventi non sempre hanno un impatto significativo in
sede giuridica, probabilmente perché, semplicemente, non siamo ancora pronti ad
accettare queste circostanze.
Quindi professore ogni caso va giudicato singolarmente?
Certamente.
Premesso che ogni individuo è diverso, il nostro obiettivo è cercare di mettere
insieme fattori diversi – genetici, di morfologia cerebrale, di funzionamento
cerebrale, di abuso di sostanze, di deprivazione di sonno, ecc. – che
concorrono a determinare la capacità di controllare il comportamento.
Quindi non si nasce già predisposti a compiere dei crimini? C'è sempre
l'influenza del fattore ambientale?
Questa è una
domanda importante. Nei secoli c'è stata sempre questa dicotomia tra natura e
cultura, che gli studi moderni stanno dimostrando essere priva di senso. Dal
punto di vista genetico, noi abbiamo tutti lo stesso genoma ma il motivo per
cui siamo tutti diversi è perché sui 22mila geni insistono oltre 30 milioni di
variazioni. Alcuni dei geni che controllano i neurotrasmettitori cerebrali
hanno anch'essi varianti alleliche che rendono un individuo più o meno
plastico, permeabile all'ambiente. Voglio dire che gli effetti dell'ambiente
possono avere conseguenze minori o maggiori su certi individui rispetto ad
altri. Se il concetto è quello di geni di plasticità, ossia di favorire o meno
una permeabilità alle condizioni ambientali, questo ci porta a concludere che
genetica e ambiente non sono inscindibili. L'unico caso di determinismo è stata
la famosa famiglia descritta da Brunner nel 1993: nei maschi di una famiglia
olandese con una pesantissima storia di comportamento antisociale vi era un
allele nullo per il gene MAOA. Poichè questo gene si trova sul cromosoma X che,
come noto, è presente in singola copia nel maschio, coloro che avevano questa
mutazione non producevano alcun enzima MAOA, ed erano estremamente aggressivi e
violenti. Questa mutazione così grave è fortunatamente estremamente rara.
Data la complessità della materia, non dovrebbe esserci una riflessione
più approfondita su come il nostro sistema carcerario debba affrontare casi in
cui alla base del comportamento antisociale c'è un fattore
biologico/culturale?
In inglese si
dice bad or mad, cattivi per scelta o perché malati, incapaci di fare
altrimenti. Più andranno avanti gli studi delle neuroscienze e più la lancetta
si sposterà da bad a mad. Nel ‘800 l’epilettico – e ancora oggi
in alcuni paesi dell’Africa – veniva considerato un indemoniato. Poi la scienza
ha dimostrato che l’epilessia è una banale malattia neurologica. Il concetto
non è molto diverso per il comportamento socialmente deviante. Ci sono
criminali psicopatici che non provano quelle emozioni e sentimenti che sono
alla base della vita sociale e del rispetto degli altri. Herbert Maudsley,
famoso psichiatra inglese vissuto a fine 1800, scriveva che "Così come ci
sono persone che non possono distinguere certi colori, affette da quella che
chiamiamo cecità per i colori, ed altre che non distinguono un tono musicale da
un altro, essendo privi di orecchio per la musica, ce ne sono alcuni che sono
congenitamente privi di qualsivoglia senso morale". Le neuroscienze oggi
offrono la possibilità di una verifica oggettiva di queste osservazioni, anche
se all'interno della comunità scientifica ci sono psichiatri forensi che escludono,
a mio avviso erroneamente, la psicopatia come causa di imputabilità perché
sostengono che in carcere sono quasi tutti psicopatici. Penso, invece, che il
fatto che dietro a molte azioni criminali ci sia la psicopatia ci deve far
riflettere: può non essere un attenuante ma esiste qualcosa che spinge a
compiere gesti criminali, non avendo la capacità di apprezzare i valori morali,
che non può essere considerata una variante di normalità. È più facile
segregare una persona per "proteggere" la società dal diverso, come
abbiamo fatto con gli appestati fino al 1600 e con i malati di mente fino a
qualche decennio fa. Poi abbiamo capito che le persone si possono curare e
riabilitare così da rendere possibile il loro reinserimento nella società.
Alla luce di tutto questo, come è possibile rieducare uno psicopatico?
Il discorso è
complesso. Cerchi di educarlo, di inserirlo un contesto. Negli Stati Uniti
stanno sperimentando per i giovani psicopatici, insensibili alla punizione,
sistemi di gratificazione. Il tentativo è quello di far loro migliorare il
comportamento dando loro dei premi. Questo procedimento sembra agire su
meccanismi primordiali di gratificazione, gli stessi che già si ritrovano nei
bambini piccoli, che prescindono dalla presenza o meno di un sistema di valori
morali.
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