Intervista a Francesca Occhionero: «Pensavo che in cella ci andasse chi commette dei reati. Invece...»

di Valentina Stella Il Dubbio 29 settembre 2017



«Mi preparavo a trascorrere un’altra notte in cella. Un’ora dopo mi sento chiamare dall’altoparlante “Occhionero scendi a piano terra” e la guardia “prepara la tua roba e vattene perché sei libera”». Comincia così il racconto alDubbio di Francesca Occhionero, scarcerata lo scorso 25 settembre, dopo circa 9 mesi di detenzione preventiva nel carcere romano di Rebibbia, nel quale era rinchiusa perché accusata di cyber spionaggio col fratello Giulio, che rimane a Regina Coeli. Nel provvedimento firmato dal giudice Bencivinni si legge che viene concesso alla Occhionero l’obbligo di firma e dimora a Roma, oltre il parere favorevole per i domiciliari del pm Albamonte, per questi due motivi: la “condotta rispettosa” tenuta in carcere e gli elementi emersi dall’incipit dell’istruttoria dibattimentale “consentono di ritenere che vi sia stato un parziale ridimensionamento” della posizione della donna.
«Ho sempre avuto l’impressione di essere stata arrestata sulla base di un fumus che non si è mai concretizzato in una serie di prove ci racconta nello studio del suo avvocato Roberto Bottacchiari. Al giudice è bastato da un lato che le intercettazioni fossero chiarite e dall’altro sentire paradossalmente solo il primo teste dell’accusa, il dottor Pereno del Cnaipic ( Centro Nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche della Polizia postale), per capire che contro di me non ci sono elementi probanti: nessuna esfiltrazione di dati, nessun collegamento con il malware e i server». E sul perché abbia fatto nove mesi di carcere preventivo Francesca Occhionero si dà due spiegazioni: «Avendo avuto molto tempo di pensare in cella, temo che abbiano strumentalizzato la mia detenzione per fare leva su Giulio, e per acquisire conoscenza di elementi da poter poi contestare in maniera specifica, anche se ad oggi manca ancora l’individuazione di un fatto criminale». E sul rapporto con suo fratello, che i giornali hanno descritto talvolta come in crisi, ci risponde: «Assolutamente, il rapporto tra me e mio fratello è solidissimo».
Tornando al 25 settembre, le chiediamo cosa ha fatto appena saputo di dover lasciare Rebibbia: «In pochissimo tempo ho preparato la mia roba. Poi grandi abbracci più o meno sinceri: ho stretto amicizie profonde che mi hanno fatto trascorrere domeniche normali. Prima di uscire mi hanno prelevato il dna. E poi l’incontro con mio marito fuori dal carcere. Ero emozionata ma anche tesa perché credevo che qualcuno potesse cambiare idea e rispedirmi dentro. La prima notte non ho dormito, ero adrenalinica, carica, non sapevo cosa fare». Il mattino invece sono subentrati sentimenti contrastanti: «Da un lato avevo una grande voglia di uscire, di tirare subito su le tapparelle e di andare a correre lungo il Tevere, ma poi è subentrata l’ansia del giudizio popolare. Sono entrata in banca e mi sono sentita gli occhi addosso di chi sussurrava nelle orecchie il mio nome, guardandomi e pensando di non essere visto. Mi sono resa conto di avere una popolarità negativa».
E sulla celebrità che il caso ha suscitato: «Non mi ero resa conto subito di quello che riportavano i giornali e le televisioni, perché nei primi giorni di detenzione non mi era stato permesso di accedere a nulla. Poi ho notato due cose: che per la stampa mio fratello era ingegnere nucleare, io semplicemente ' la sorella di' o la runner. Tutti avevano omesso il mio dottorato di ricerca in chimica. Poi ho letto che mi dipingevano come “lady hacker”, “la bella spia” e mi sono resa conto che si trattava di una montatura, di una enorme bufala che si smonterà. Ma purtroppo qualcuno dentro e fuori il carcere ha goduto nel vedermi rinchiusa». Qualche mese fa il Dubbio pubblicò in esclusiva una sua lettera dal carcere in cui denunciava le pessime condizioni di detenzione: «Le prime notti ho pianto, poi alla disperazione è subentrata la rabbia per una situazione così surreale e shockante. Ho passato i primi venti giorni nella sezione Camerotti, dove ci sono quelli in attesa di giudizio. Avevo paura ad uscire dalla cella fredda e spoglia per farmi la doccia, temevo di essere aggredita. Non capivo perché le guardie mi davano del “tu” e si rivolgevano a me con “questa”, “quella”, palesando una chiaro atteggiamento di insufficienza. Poi sono stata trasferita in un reparto migliore. Comunque non sono mai riuscita ad abituarmi alla condizione di detenzione perché per me ogni giorno era l’ultimo psicologicamente, non riuscivo a entrare nel sistema, lo rigettavo, pensavo di uscire subito. Passavo il tempo leggendo e scrivendo, anche un libro sulla mia vicenda, e facendo sudoku. E poi nell’ultimo mese sono riuscita a far riaprire una palestra donata al carcere da De Rossi e Totti e ho insegnato fitness a oltre 50 detenute». Sarà il processo a mettere un punto a questa storia ma concludiamo chiedendo a Francesca che idea in generale si sia fatta di questa vicenda: «All’inizio pensavo che qualcuno doveva far carriera sulla nostra pelle. Adesso credo che siamo un perfetto capro espiatorio, il soggetto giusto a cui dare la colpa di qualcosa messo in piedi da altri nel passato, essendoci altri sei malware in circolazione». Un ultimo pensiero sul carcere: «È un mondo che non mi aveva mai incuriosita. Confesso di aver avuto un pregiudizio, per cui se qualcuno entrava in carcere doveva aver fatto qualcosa. Il classico luogo comune su cui mi sono dovuta ricredere. Ora dico che bisogna pregare di non incappare nella giustizia; purtroppo si è incrinata la mia fiducia in alcuni ambiti delle istituzioni e delle forze dell’ordine».

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