De Pascalis: la detenzione domiciliare non è un atto di clemenza
di Valentina Stella Il Dubbio 13 marzo 2020
Massimo De Pascalis, già vice
capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha diretto diversi
istituti di pena, come Rebibbia Nuovo Complesso e Spoleto. In questo delicato momento avanza una proposta
per fronteggiare l’emergenza coronavirus in carcere, ossia prevedere
immediatamente la detenzione domiciliare per coloro che hanno residui di pena
inferiori ai due anni.
Dottor De Pascalis, prima di arrivare alla soluzione, partiamo dalle
cause.
Quanto è accaduto non può essere
presentato come qualcosa di imprevedibile. Da quando è iniziata l’emergenza si
è parlato di tutto tranne che di carcere, come se fosse una zona franca. Ancora
prima delle rivolte, riflettevo sul fatto che non si stava affrontando,
all’interno del già complicato quadro nazionale, il serio problema del carcere
al tempo del coronavirus. Mi chiedevo se la politica, se il Governo non
avessero dovuto già adottare dei provvedimenti, tenendo conto del
sovraffollamento che, come ricorderete, è diminuito durante quei brevi periodi
in cui sono stati concessi amnistia e indulto. Il sovraffollamento non può
garantire nei reparti adeguate condizioni igienico sanitarie, per chi ci lavora
e per chi ci vive. Neanche l’esecuzione
penale ordinaria si affronta bene con il sovraffollamento, figuriamoci una
emergenza sanitaria come questa. Eppure
la tutela del diritto alla salute riguarda tutti, senza distinzione alcuna.
Se Lei quindi fosse ancora al Dap cosa proporrebbe per arginare la
crisi di questi giorni e quella che potrebbe susseguirsi?
Si deve assolutamente e
urgentemente capire che la detenzione domiciliare non è un atto di clemenza.
Essa è disciplinata dal nostro ordinamento penitenziario. Si tratta tuttavia di
un procedimento istruttorio assai complesso che deve fare i conti con le
lungaggini delle procedure giurisdizionali che caratterizzano tutto il nostro
ordinamento giuridico.
Ma ora siamo in emergenza, quindi che si fa?
Per questa ragione ho proposto in
questa particolare fase che sia il Governo con un proprio provvedimento a
riconoscere la detenzione domiciliare a tutti i detenuti con residuo di pena
inferiore a due anni, a condizione che abbiano già fruito della liberazione
anticipata o di permessi premio e, considerato quanto sta accadendo nelle
carceri, che non abbiano partecipato alle azioni violente, alle sommosse o alle
rivolte.
Di che numeri parliamo?
Facendo un po’ di conti,
potrebbero andare in detenzione domiciliare poco più di 10.000 detenuti per i
quali è stata già riconosciuta la partecipazione all’opera rieducativa. Si
tratta di un provvedimento necessario per tutelare la salute pubblica nei
penitenziari, per tutelare la salute di tutti. Ma a dirlo non devo essere io,
ma la politica che deve anche spiegarne le ragioni e farle comprendere all’opinione
pubblica e al personale, che non deve percepirlo come una concessione ai
reclusi, ma come un atto dovuto. Non posso credere che gli agenti di polizia
penitenziaria, che conosco molto bene per il grande valore umano e
professionale, non riuscirebbero a capirne l’importanza. Non comprendo invece
questo silenzio, queste solite frasi di routine: sarebbe bene che si facesse
una conferenza stampa a livello nazionale per spiegare i motivi dell’ipotetico
provvedimento.
Cosa accadrebbe nel momento in cui anche tra la popolazione detenuta ci
fosse il paziente zero?
Sarebbe una situazione
difficilissima da combattere. Anche per una tale eventualità, la deflazione
dell’attuale sovraffollamento sarà utile non solo perché consentirebbe di
recuperare condizioni igienico sanitarie più adeguate rispetto alle reali
esigenze di una comunità chiusa e un monitoraggio più efficace delle medesime,
ma soprattutto aprirebbe alla possibilità di svuotare alcuni istituti
penitenziari o reparti detentivi per destinarli ad ospitare esclusivamente
detenuti contagiati in quarantena.
Però l’impressione è che si voglia usare il pugno duro, difficile che
questo Governo metta in atto il provvedimento da Lei suggerito.
Voler rimuovere il problema
coronavirus in carcere mostrando la forza è pura follia. Il contagio in carcere
è ancora più grave del contagio nelle città. Non mi sorprendono i timori che la
politica sta esprimendo a tale riguardo, ma, per dirla alla Manzoni, i vari don
Abbondio che, con l’incarico di consulenti, la consigliano, tanto a pagarne le
conseguenze sono sempre gli altri.
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