"Quello di Enzo Tortora non è stato un errore, ma un crimine giudiziario"
Di Valentina Stella Il Dubbio 30 novembre 2018
“Sono come svuotato, credimi, e ormai indifferente a
quello che di nuovo, di infame, hanno detto. Bisogna che da fuori la battaglia
non si spenga: li fa impazzire di rabbia. E i pazzi, prima o poi, come vedi,
sbagliano. Ma hanno il potere, un potere tremendo, inumano. Impensabile, in
democrazia. […] Solo tre categorie di persone (ho scoperto) non rispondono dei
loro crimini: i bambini, i pazzi e i magistrati”: queste parole sono un
estratto di una lettera che Enzo Tortora inviò dal carcere di Bergamo alla sua
compagna Francesca Scopelliti, presidente della Fondazione per la giustizia
giusta Enzo Tortora, che ha raccolto tutte le altre nel libro “Enzo Tortora,
Lettere a Francesca” (Pacini Editore). L’abbiamo incontrata a margine di un
incontro sugli errori giudiziari, organizzato a Civitavecchia dalla Camera
penale locale, presieduta dall’avvocato Andrea Miroli. Oggi Enzo Tortora
avrebbe compiuto 90 anni ma purtroppo trenta anni fa ci ha lasciati a causa di
un tumore polmonare. Eletto deputato europeo e presidente del Partito radicale,
ha combattuto fino all’ultimo per i diritti dei detenuti e contro una
magistratura irresponsabile per i propri errori.
Francesca Scopelliti, cosa Le manca di
più di Enzo? Di lui mi
manca tutto come parte affettiva. Ma manca anche al Paese per il suo impegno
nella sua battaglia per la giustizia, la mancanza della sua voce fa la
differenza.
Lei, ricordando la tragica vicenda
giudiziaria, preferisce parlare di ‘crimine giudiziario’ invece che di errore.
Perché? Secondo me
l’errore è un qualcosa che si compie per caso, ad esempio male interpretando un
fatto. Nel caso di Enzo si può parlare di errore nei primi sei giorni dal suo
arresto – ma non ci credo poi neanche molto – ma non è più sostenibile l’errore
dopo il primo interrogatorio, quando gli inquirenti si accorsero di non aver
acquisito alcun tipo di prova. L’unico elemento che avevano era una lettera che
parlava dei centrini mandati a Portobello, contraddetta dalla lettera di
risposta che aveva scritto e portato agli atti anche Enzo. A quel punto è
chiaro che inizia un crimine: se ci fossero stati due magistrati onesti,
impegnati solo nella ricerca della verità, avrebbero detto ‘Tortora ci scusi,
abbiamo sbagliato’. E invece no: hanno deciso che Enzo doveva essere colpevole
per forza. Tutta l’inchiesta giudiziaria e il processo di primo grado lo
confermano.
Cosa è rimasto della battaglia di Tortora
insieme al Partito Radicale e quanto ancora abbiamo da imparare? Con grande tristezza la vicenda di Enzo non
ha insegnato nulla alla politica che è troppo distratta e troppo chiusa: non
vuole sentire, non vuole vedere o parlare. Lo conferma il fatto che oggi a 30
anni dalla morte di Enzo si preferisce non parlare di lui, o meglio: se lo si
fa, se ne parla solo in termini professionali, come di un grande giornalista e
conduttore televisivo. Ma non si accenna mai alla sua vicenda giudiziaria, non
si ha mai il coraggio di dire che Enzo è morto di malagiustizia. Un Paese che
non ha memoria non ha neanche un futuro. Quindi il caso di Enzo Tortora ha
insegnato ben poco proprio per ottusità della parte politica. Non aspettiamo
che capiti a noi quello che è accaduto a Tortora; facciamoci responsabili oggi
per evitare che capiti ad altri. Per chi vuole capire, della battaglia di Enzo
rimane tanto. A portare avanti la battaglia di Enzo ci sono come sempre i
radicali, il mio impegno come presidente della Fondazione naturalmente non
manca, e poi ho trovato dei compagni di viaggio straordinari che sono gli
avvocati dell’Unione delle Camere Penali.
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