Bassetti: “L’emergenza sanitaria ospedaliera è finita ma non chiamatemi negazionista”
di Valentina Stella Il Dubbio 1 agosto 2020
Il professor Matteo Bassetti, Direttore della Clinica Malattie Infettive
presso l' Ospedale Policlinico San Martino di Genova, rifiuta l'appellativo di
'negazionista' attribuitogli da certa stampa faziosa ma rivendica la pluralità
di idee in campo medico - scientifico.
Che cosa abbiamo imparato in questi mesi sul covid?
Dal punto di vista strategico il
modo migliore per gestire questa infezione è quello della multidisciplinarietà;
le logiche baronali con il covid sono definitivamente morte. Solo collaborando
insieme - medici rianimatori, infettivologi, pneumologi, cardiologici, etc - si
può gestire questa infezione multiorgano. Dal punto di vista clinico abbiamo
capito che non è una infezione così devastante come si poteva ipotizzare in una
prima fase: è vero che all'inizio purtroppo sono morte molte persone ma con il
passare del tempo abbiamo imparato a contrastarlo meglio, ad esempio
utilizzando i farmaci giusti. Dal punto di vista infettivologico questo virus
ci ha insegnato che, come gli altri che si sono manifestati nel passato, è un
fenomeno dinamico: oggi non è come a febbraio e non sarà uguale a dicembre. Il
virus muta, o ha più o meno carica. Oggi
fa meno male che a marzo perché trasmettiamo agli altri una carica virale più
bassa.
Lei e il suo team siete autori di diverse pubblicazioni su riviste
scientifiche. Quali i dati più importanti?
Abbiamo pubblicato 14 lavori
scientifici in 3 mesi. Uno dei più interessanti è quello sulla sieroprevalenza
sulle province meno colpite della Lombardia e su quelle liguri: il numero di
persone che è stato interessato dal virus in maniera asintomatica è il 13%
della popolazione. Ciò vuol dire che il numero che stiamo registrando oggi di
persone colpite è molto più basso del numero reale, che dovrebbe essere forse
moltiplicato per 10 o per 20. Da ciò si deduce che se il numero dei contagiati cresce
di due o tre volte, è evidente che anche
la letalità decresce in maniera esponenziale e si aggira tra lo 0,7% e l'1,5%:
è una brutta malattia ma in una percentuale minima di soggetti.
Il secondo studio?
Verrà pubblicato sulla rivista Clinical
Microbiology and Infection, la più prestigiosa del settore in Europa e
descriverà tutti i casi trattati al San Martino e analizzerà nel dettaglio i fattori di rischio che hanno
condotto alla morte del paziente. Un altro nostro studio ha dimostrato, invece,
che l'idrossiclorochina, anche ad alte dosi, non ha effetto sulla carica virale
di pazienti affetti da SarsCov-2.
Cosa ne pensa della proroga dello stato di emergenza? Solo una
decisione politica?
Solo decisione politica: dal
punto di vista medico non siamo in una situazione di emergenza. Se vogliamo
definire l'emergenza sanitaria come emergenza ospedaliera, allora la crisi è
finita, come in altri Paesi europei. Il problema è di tipo formale credo; il
nostro è uno Paese molto complicato dal punto di vista delle leggi: forse i
poteri speciali rendono più facile l'adozione di particolari provvedimenti
come l'assunzione di medici o la
destinazione di ospedali al trattamento del covid. L'importante è essere chiari
su questo perché poi l'informazione che arriva fuori dall'Italia è che siamo
ancora in emergenza sanitaria.
Lei ha detto di essere 'veramente schifato per essere stato definito
negazionista'. Che clima c'è nella comunità scientifica, non state litigando
troppo?
Molte di queste polemiche sono
state fatte dai giornali, non posso credere che qualche mio collega abbia avuto
il coraggio di definirmi 'negazionista'. Tra di noi c'è stima reciproca e
quindi questo termine può essere venuto solo dalla stampa. Bisogna finirla in
questo Paese con i titolisti che ci categorizzano: ottimisti, allarmisti,
negazionisti. Si fa cattiva informazione: hanno scritto che avrei detto che il
covid è una banale influenza, ma non ho mai pronunciato questa espressione.
Sono schifato perché bisogna andare all'origine dell'uso del termine
negazionista, ossia di colui che nega lo sterminio degli ebrei. Ho passato tre
mesi della mia vita a curare centinaia di pazienti in quei reparti quindi è
quantomeno paradossale attribuirmi del negazionista. Non pretendevo che mi si
dicesse grazie ma dire che nego l'evidenza del covid è indice di profonda
bassezza del giornalismo italiano.
Lei ha anche detto che non Le piace un Paese in cui domina un pensiero
unico. Ma la scienza non è proprio l'ambito della certezza, della collegialità
della conoscenza altrimenti i cittadini perdono fiducia?
Non mi piace pensare che sul
covid bisogna pensarla tutti allo stesso modo - ad esempio su come è il virus o su come vanno
curati i pazienti - . Io non accetto l'idea unica, stile Corea del Nord. Il
pensiero unico sul covid ha già prodotto diversi danni in Cina. La scienza e la
medicina sono alimentate da pluralità di idee: questo è il bello del nostro
mestiere. Io ho le mie ipotesi, faccio degli studi per dimostrare se sono
giuste o sbagliate. Questo vuol dire fare ricerca scientifica, questo è
praticare la medicina oggi. Chiaro è che non possiamo dividerci sul fatto se
questa malattia sia virale o batterica ma possiamo interpretare in maniera
diversa altri dati che abbiamo a disposizione. Noi dobbiamo dare ai cittadini
gli stessi messaggi che sono: prevenzione - mascherine, distanziamento,
lavaggio delle mani - e
vaccinazioni.
Abbiamo assistito alla sovraesposizione mediatica degli scienziati. Che ne pensa? È
stato un errore?
Credo che sia giusto che a
parlare di una malattia ci sia un esperto. La comunicazione 4.0 è molto veloce,
l'informazione televisiva è stata superata da quella online per cui le
informazioni che arrivano direttamente dalle rete hanno necessariamente bisogno
di qualcuno che le sappia interpretare. Il nostro ruolo di divulgatori è quindi
sicuramente importante per i cittadini ma anche per i politici.
A proposito di ciò, gli scienziati sono stati rivalutati nelle stanze
della politica, rispetto al passato.
I politici hanno fatto molto
affidamento sulla scienza: decisioni veramente politiche negli ultimi cinque
mesi sono state poche, come il lockdown e la chiusura delle scuole, ma comunque
prese ascoltando i tecnici. Anche se molte delle decisioni che si dovevano
prendere avrebbero dovute essere politiche. La scienza è giusto che si
riappropri dei propri spazi e non solo nei casi di emergenza.
Scienziati in politica?
No, dobbiamo rimanere dei tecnici.
Il nostro ruolo è molto vicino alla politica ma con l'indipendenza della
scienza.
Quindi non la vedremo candidato in qualche partito in futuro?
Mi è stato offerto da molti ma
noi dobbiamo rimanere sufficientemente lontani e sufficientemente vicini alla
politica.
Come giudica il lavoro del Comitato Tecnico Scientifico?
Il covid è stato un fatto
devastante che ha riguardato prioritariamente le Regioni. Il CTS ha sicuramente
fatto delle scelte, alcune giuste altre più criticabili, però la maggior parte
delle decisioni importanti le hanno assunte le regioni. I risultati ottenuti
non sono del Governo o del Cts come qualcuno pensa ma sono delle regioni. Il
lavoro sporco, quello sul campo -fare i
tamponi, tracciare i contagi, curare la gente, trovare i posti letto - è merito delle regioni.
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