Inappellabilità sentenze di assoluzione: Nordio riapre
Valentina Stella dubbio 29 maggio 2025
Si torna a parlare di inappellabilità delle sentenze di assoluzione e il tema si presenta subito divisivo. Ad offrire lo spunto è il caso Garlasco: nuove indagini mettono in dubbio la colpevolezza di Alberto Stasi. Come è possibile che sia stato condannato dopo due assoluzioni? Non sarebbe opportuno evitare che un pm appelli una assoluzione? Queste domande si fanno più pressanti in questi giorni. Mettendo da parte le considerazioni emotive, resta la questione giuridica riproposta anche ieri dal Ministro Nordio in una intervista al Corriere della Sera dove ha sostenuto che è sua intenzione rivedere il sistema delle impugnazioni, in base a come andrà il referendum sulla separazione delle carriere. Come noto, la disciplina dell’appellabilità delle sentenze penali era stata profondamente modificata con la legge 46/ 2006 (cd. Pecorella), poi cassata un anno dopo dalla Corte Costituzionale per asserita violazione del principio di «parità delle parti processuali». Dopo, la commissione presieduta da Giorgio Lattanzi, istituita a via Arenula dall’allora Ministra Cartabia, aveva proposto un ritorno alla legge Pecorella ma solo in cambio di radicale riforma dell'appello a critica vincolata per accedere al secondo grado per i legali. Quindi non se ne fece nulla, tranne per le sentenze relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa. Con l’attuale Guardasigilli l’inappellabilità si è estesa per le sentenze di assoluzione concernenti reati a citazione diretta davanti al tribunale in composizione monocratica. Ci sono due ragioni diverse a sostegno della riforma. La prima, sostenuta anche dall’Unione Camere Penali: l'impugnazione del pubblico ministero contro le sentenze di assoluzione non può convivere con il principio dell'al di là di ogni ragionevole dubbio. La seconda, sostenuta, tra gli altri, invece dal professor Paolo Ferrua: «L’appello del pubblico ministero può essere tranquillamente abolito, non essendo tutelato né dalla Costituzione né dalle fonti sovranazionali. Si risolverebbe così l’anomalia della condanna pronunciata per la prima volta in appello, mentre il ricorso in Cassazione sarebbe sufficiente a rimediare ad ogni grave ingiustizia nell’assoluzione». D’accordo con Ferrua è anche il professor Giorgio Spangher che precisa altresì: «Vorrei evidenziare che la decisione della Corte Costituzionale contiene un errore giuridico, di cui forse l'estensore Flick si sarà pentito. Egli parlò di 'soccombenza del pm': è un concetto sbagliato perché il pm non è portatore di interessi personali. Tanto è vero che con la riforma della Commissione Carcano del 2015 limitammo il potere di impugnazione del pm rispetto alla pena». Contrarietà invece è espressa dall’Anm, come ci ha spiegato il presidente Cesare Parodi: «Un giudice può sbagliare, in un senso o nell’altro. E allora se può essere rinvenuta una ragione - per esigenze di efficienza di sistema - nella limitazione oggi prevista per i reati per i quali si procede con citazione diretta a giudizio sul presupposto della loro minore gravità, credo che ciò non possa valere per reati per il quale il legislatore ha oggettivamente indicato una specifica gravità». Sulla considerazione dei giuristi Ferrua e Spangher ha aggiunto: «Se il giudizio di appello viene riconosciuto come valutazione di grado “superiore” rispetto a quello di primo grado, credo si debba tenere conto di tale prospettiva. L’alternativa è l’appello sull’appello, con il rischio di innescare una catena di giudizi non facile da disciplinare e gestire. È la Suprema Corte il garante supremo del sistema e questo credo consente di ritenere che la previsione dell’art. 111 Cost- che non riconosce il diritto all’appello sull’appello, quanto il ricorso in Cassazione in ogni caso - non debba essere modificata. Esprimo su questi temi opinioni personali, non essendoci stati in tempi recenti un dibattito specifico in Anm - ma che credo siano condivise da molti colleghi». Ovviamente anche le forze politiche si dividono. Mentre la Lega ancora ragiona, netta è posizione degli altri partiti di maggioranza. Per Tommaso Calderone di Fi « l’inappellabilità delle sentenze di assoluzioni è stata sempre una ‘bandiera’ di Forza Italia e in particolare era una ‘idea’ legislativa del presidente Berlusconi. Pertanto il nostro Partito non può non essere d'accordo». Per il senatore di Fdi Sergio Rastrelli « lo ritengo un approdo non solo possibile, ma necessario ed urgente, perché sottintende un principio di civiltà giuridica, da cui non può e non deve discostarsi un sistema giudiziario moderno, che voglia davvero essere costituzionalmente orientato, e correttamente informato al principio delle garanzie e della presunzione di innocenza di ogni cittadino, fino a prova contraria ed oltre ogni ragionevole dubbio». Invece per la responsabile giustizia del Pd, Debora Serracchiani, «siamo agli annunci mirabolanti di riforme inutili oltre che illegittime come già ampiamente affermato dalla Corte Costituzionale. Ma in questo il ministro è coerente: legittimità e applicabilità delle norme sono solo un effetto collaterale della propaganda panpenalistica che resta la priorità». Insomma la questione nasce prettamente su di un piano strettamente giuridico ma si andrà mano mano declinando su quello dello scontro politico. Non è escluso che questo possa divenire anche un tema utilizzato dalla maggioranza parlamentare durante la campagna referendaria per accusare la magistratura soprattutto requirente di essere ‘colpevolista’, di non riuscire ad abbandonare la propria tesi accusatoria, di non essere in grado di dire «ho fallito davanti al giudice», anche perché dell’inchiesta Garlasco bis ne parleremo ancora per mesi e il correlato dibattito sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione offrirà sempre spunti di riflessione e di scontro.
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