Intervista a Cecilia D'Elia

 Angela Stella Unità 22 novembre 2025

 

Senatrice Cecilia D’Elia, vicepresidente del Partito democratico della Commissione Femminicidio, il 25 novembre si celebra la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne. Quanto ancora c’è da fare?

 

Moltissimo. L’ambizioso obiettivo della giornata è lontano dall’essere raggiunto. Eppure, tale obiettivo può essere posto perché le donne si sono ribellate alla violenza, l’hanno nominata. Nella Convenzione di Istanbul, ratificata dal nostro Paese nel 2013, viene descritta come una manifestazione dei rapporti diseguali tra i sessi, violazione dei diritti umani, una forma di discriminazione contro le donne. La violenza maschile contro le donne è un fenomeno strutturale ed ha a che fare con il potere, il dominio. Per contrastarla bisogna affrontare le dinamiche sociali che la producono e la rafforzano. Viviamo un tempo in cui la violenza è nello stesso tempo il lascito di una storia di dominio e la reazione alla fine di esso. Troppi uomini non sanno convivere con la libertà delle donne.

 

Queste giornate celebrative non sono un po’ un alibi per lavarsi la coscienza nel quotidiano?

 

Non è detto. Io sono contraria al moltiplicarsi delle giornate nazionali, in questa legislatura ne abbiamo già istituite varie, ma in questo caso parliamo di una giornata istituita dall’Onu, che riguarda il mondo intero. Di una data che è entrata nel calendario dell’associazionismo e dei movimenti, prima ancora di diventare un appuntamento istituzionale. Può essere la conferma collettiva di un impegno, l’occasione per manifestare bisogni e richiamare le istituzioni alle proprie responsabilità.

Le manifestazioni del 2023 sono state oceaniche, sicuramente uno spartiacque nella coscienza pubblica, dopo i femminicidi che avevano segnato quell’anno, in particolare quello di Giulia Cecchettin, rispondendo alle parole della sorella che invitavano a fare rumore.

Sta a noi, soprattutto a chi di noi è nelle istituzioni, fare in modo che ci sia impegno reale e concreto. Credo sia mancato, a fronte di quella mobilitazione, un salto di qualità delle politiche pubbliche, del piano nazionale antiviolenza, in termini di risorse, sostegno ai centri antiviolenza e alle case rifugio, percorsi di fuoriuscita dalla violenza, e soprattutto in termini di prevenzione. Le opposizioni allora decisero di investire tutto quello, troppo poco, che il bilancio in discussione consentiva loro, nelle azioni del piano. L’azione contro la violenza non è fatta solo di approvazione di norme, serveno coordinamento dei livelli istituzionali, promozione di politiche globali e integrate, investimenti adeguati. 

 

 

A marzo è uscito il suo libro “Chi ha paura delle donne”. Che bilancio si può fare?

 

Il sottotitolo del libro è libertà femminile e questione maschile. La mia riflessione si muove proprio su questa corrispondenza. A fronte di un cambiamento prodotto e vissuto dalle donne a partire dal secolo scorso, si registra oggi una resistenza, una reazione, una guerriglia contro le donne. La violenza e i femminicidi sono la faccia più feroce di questa questione maschile. Stiamo parlando di una questione politica di primaria importanza, che riguarda la nostra convivenza. Che cosa ci racconta il caso Pellicot, l’esperienza di una donna sedata e abusata a sua insaputa da moltissimi uomini, reclutati a tal fine dal marito? O la pagina facebook Mia moglie? Foto scattate di nascosto, da condividere tra maschi per commenti sessisti, donne come prede di cui vantarsi. Il tutto troppo spesso derubricato come gioco. Siti che usano l’intelligenza artificiale per spogliare donne note perché politiche o giornaliste. Un bisogno di oggettivare, ridurre a corpo disponibile, che è indice di una cultura che ha paura della libertà e dell’autonomia delle donne. Una reazione maschile alla crisi del patriarcato, che oggi ispira politiche reazionarie capaci di sedurre uomini che si sentono spossessati dal loro ruolo, uomini anche giovani.

 

 

 Violenza sulle donne. La Camera ha approvato la proposta di legge sul consenso libero e attuale. Un atto di civiltà giuridica o l’ennesima conferma di un diritto penale simbolico?

 

Un riconoscimento importante. Affermare che c’è violenza ogni volta che non c’è consenso, che solo un sì è un sì, mette al centro l’autonomia delle donne.

Abbiamo finalmente risposto a una richiesta che veniva anche dalla concreta esperienza processuale. Avendo un reato di violenza sessuale basato sulla presenza di minacce o violenza le donne che denunciavano erano spesso sottoposte alla cosiddetta vittimizzazione secondaria, stava a loro dimostrare che avevano resistito, che si erano opposte. L'Italia si allinea ai 21 paesi europei che già hanno fatto questo passaggio.

Questo percorso legislativo è frutto di una convergenza politica, possibile grazie ad un'interlocuzione fra la segretaria del Pd Elly Schlein e la presidente del consiglio Giorgia Meloni. Non è la prima volta che questo accade su questi temi, ma per la prima volta avviene su una proposta d'iniziativa parlamentare, un testo presentato dalle democratiche, a prima firma Boldrini, su cui hanno lavorato le due relatrici Di Biase e Varchi.

Inserire il consenso apre a un cambio di paradigma. Certo per affermare questa cultura, avremo bisogno di potenziare la formazione degli operatori, di investire nell'educazione.

 

 

L’onere della prova ora spetterà all’imputato. Si rafforza l’idea che la donna ha sempre ragione. Una inversione dei basilari principi del diritto. Condivide?

 

Veniamo da una storia che fatica a riconoscere la credibilità della parola femminile. Abbiamo un codice penale costruito a partire dal punto di vista del soggetto maschile, che riteneva la violenza un reato contro la morale. Solo nel 1996, vale la pena ricordarlo, passammo al reato contro la persona, ma non mutò la definizione del reato, legato alla presenza di “minaccia o violenza o abuso di autorità”. Sarà sempre il Pm a dover dimostrare l’accusa, ma inserendo il consenso abbiamo dato valore alla parola delle donne, a fronte di un’esperienza che oggi ci dice il contrario.

 

 

La Camera sta per far diventare legge anche il nuovo reato di femminicidio. Davvero per fermare il fenomeno serve la leva del diritto penale?

 

Il penale serve a perseguire i reati. Cambiare il codice perché lo faccia in modo adeguato e riconosca la matrice di genere di questo reato è un fatto importante. Per questo non sottovaluto l’importanza dell’uso della parola femminicidio, che indica esattamente questo.

Ma non è la minaccia dell’ergastolo che farà diminuire i femminicidi. Proprio perché parliamo di un dato strutturale, che ha a che fare con i rapporti di potere e dominio vanno cambiati questi.

 

Che idea si è fatta della querelle sull’insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole?

 

Per tutto quello che ho detto sin qui, credo che l’educazione sessuale e affettiva sia una questione politica di primaria importanza. Bisogna che nell’educazione entrino i corpi, la sessualità, le relazioni. E invece la risposta di questo governo e di Valditara è il divieto e il consenso informato preventivo delle famiglie. È una legge oscurantista, che non si fida della scuola e delle competenze. Su questo c’è una chiusura della destra, il testo di legge governativo proibisce l’educazione sessuale nella primaria. E poi chiede il consenso preventivo, quando già c’è il coinvolgimento delle famiglie nell’offerta formativa. Una sorta di materia “sorvegliata speciale”.  L’opposto di quelle che servirebbe; risorse culturali e simboliche per sconfiggere la cultura del possesso, per promuovere la cultura del consenso.

 

 

Secondo il Guardasigilli il “maschio non accetta parità” perché “il suo codice genetico fa resistenza”.

 

Il ministro Nordio non smette di stupirci. Dopo aver consigliato alle donne di rifugiarsi in chiesa o in farmacia, invece di affrontare il mal funzionamento dei braccialetti,  adesso ci avverte che è nel codice genetico maschile la sopraffazione. Una conferma degli stereotipi che viene da una carica così importante e così decisiva, altro che mutamento maschile. Il ministro dichiara persa in partenza la possibilità di sconfiggere la violenza, salvo chiedere alle famiglie, e solo a loro di educare diversamente. Un personaggio che ogni giorno conferma la propria inadeguatezza.

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