Separazione carriere: scontro maggioranza opposizione in Senato

 Valentina Stella dubbio 29 aprile 2025

Si preannuncia battaglia nelle commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia del Senato in merito alla riforma sulla separazione delle carriere. Approvata alla Camera dei deputati lo scorso 16 gennaio, la discussione nelle I e II di palazzo Madama è iniziata dopo quindici giorni. Si sono poi tenuti sei cicli di audizioni, in totale venticinque sedute dei commissari. E oggi si iniziano a votare gli emendamenti. Ma come ci riferisce il senatore Alberto Balboni (Fratelli d’Italia), presidente della prima commissione e relatore del provvedimento, «sono quasi tutti ostruzionistici. Sono oltre un migliaio: calcolando 20 minuti ciascuno fanno 20 mila minuti, ragione per cui per arrivare a votare il mandato al relatore ci vorrebbero almeno sei mesi». «Mi pare chiaro che l'obiettivo delle opposizioni - ci dice sempre il parlamentare - è costringere la maggioranza ad andare in Aula senza relatore per poi gridare allo scandalo». Da qui l’appello a Partito democratico, Movimento Cinque Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra: «Io credo invece che le opposizioni farebbero cosa più utile al confronto democratico se riducessero gli emendamenti ad un centinaio e consentissero un vero dibattito di merito. Non è accettabile che la minoranza pretenda di porre il veto sui provvedimenti della maggioranza contenuti nel programma elettorale e quindi votati dagli italiani, come appunto la separazione delle carriere. Questo modo di fare ha poco a che fare con la democrazia e molto con la patologica arroganza della sinistra». Insomma, parole molto dure quelle del senatore Balboni che si vanno a scontrare con quelle pronunciate in commissione qualche settimana fa dal senatore dem Alfredo Bazoli: «il ministro Nordio ha ribadito la sostanziale inemendabilità del disegno di legge governativo, perpetrando un metodo di intervento inaccettabile e pericoloso, in quanto preclude il contributo correttivo delle Camere e imposta l'iter della riforma secondo un metodo plebiscitario, in spregio al Parlamento e alle opposizioni, che non sono messe in grado di correggere la riforma, sulla quale sarà poi chiamato a pronunciarsi il corpo elettorale con il referendum. Si instaura, in tal modo, un precedente molto pericoloso, che legittimerà, in futuro, interventi analoghi da parte di qualunque Governo e di ogni maggioranza». Difficile quindi che dai banchi di opposizione si faccia un passo indietro e ritirino le proposte emendative. «Perché dovremmo?» ci risponde lapidario proprio Bazoli. L’obiettivo è quello di procrastinare il più a lungo possibile la discussione e ritardare l’approdo al referendum, ingaggiare una guerra dei nervi con la maggioranza, far avvicinare il più possibile l’appuntamento plebiscitario alle elezioni di rinnovo del Parlamento, dando più spazio all’Anm per la sua campagna comunicativa contro il referendum. Ma quali sarebbero poi i tempi? Come ci spiega il costituzionalista Giovanni Guzzetta «il testo della Costituzione ( “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”, ndr) consente due interpretazioni. La prima: i tre mesi vengono calcolati dall’approvazione nella prima Camera. Quindi se a Montecitorio la riforma è passata il 16 gennaio, sarebbe già potuta tornare alla Camera dal 17 aprile, dopo ovviamente l’approvazione in Senato. Questa è l’interpretazione prevalente. L’altra, che invece non si è affermata, prevede che i tre mesi si computino dall'approvazione in seconda lettura. Quindi dovrebbe essere Camera-Senato, intervallo di tre mesi, Camera-Senato». E dopo che succede? Come spiega il sito ‘piattaformacostituzionale.camera.it’, dopo l’approvazione, in seconda votazione, a maggioranza assoluta ma inferiore a due terzi dei componenti di Camera o Senato, ha luogo la pubblicazione del testo della legge nella Gazzetta ufficiale, preceduta dall’avvertimento che i soggetti previsti dall’art. 138 Cost. possono chiedere, entro tre mesi dalla pubblicazione, che si proceda a referendum, con apposita richiesta da far pervenire, da parte dei delegati dei richiedenti, alla cancelleria della Corte di Cassazione. Qualora la richiesta sia presentata da almeno un quinto dei membri di una delle Camere, le sottoscrizioni devono essere autenticate dalla segreteria della Camera cui appartengono, la quale attesta che essi sono parlamentari in carica. L’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione con il compito di verificare la conformità della richiesta di referendum alle disposizioni dell’art. 138 Cost., decide sulla legittimità della richiesta entro 30 giorni dalla sua presentazione, termine ultimo per contestare ai presentatori le eventuali irregolarità. Esso poi comunica quindi l’ordinanza sulla legittimità della richiesta di referendum al Presidente della Repubblica, ai Presidenti delle Camere, al Presidente del Consiglio dei ministri, al Presidente della Corte costituzionale, nonché ai delegati dei richiedenti. Il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei ministri, indice il referendum con proprio decreto entro 60 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza che lo ha ammesso. Il referendum si svolge in una domenica compresa tra il 50° e il 70° giorno successivo all’emanazione del decreto di indizione, le operazioni di voto si estendono alla giornata del lunedì successivo. Volendo tirare le somme: tra i tempi politici in Parlamento e quelli tecnici per indire il referendum appare alquanto impossibile che vi si possa giungere entro quest’anno, benché fosse l’auspicio del Ministro Nordio. 


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