Separazione carriere: audito Martelli
Valentina Stella Dubbio 12 marzo 2025
«Non c'è ombra di dubbio su quali fossero le convinzioni di Giovanni Falcone. Basta leggere opportunamente la raccolta dei suoi scritti che pubblicai quando diedi vita alla Fondazione Falcone: considerava la separazione delle carriere conseguenza logica del nuovo processo penale di carattere accusatorio»: così ieri l’ex Ministro della Giustizia Claudio Martelli in audizione in commissione Affari costituzionali del Senato ha respinto la tesi delle toghe per cui Falcone non va assolutamente annoverato tra i fautori della riforma. L’ex esponente di spicco del partito socialista, chiamato da Fratelli d’Italia ad intervenire appunto sulla modifica costituzionale dell’ordinamento giudiziario, mentre era responsabile di Via Arenula aveva chiamato proprio l’ex magistrato antimafia a dirigere la Direzione Generale degli Affari Penali: «Falcone non riteneva scandaloso collaborare con me, altrimenti non avrebbe mai accettato di cooperare con il ministro della giustizia; del resto al ministero più di cento magistrati ricoprono il ruolo di dirigenti e non è questa già una forma di collaborazione tra potere giudiziario e potere esecutivo?». Per interpretare al meglio questa ultima considerazione di Martelli bisogna ripercorrere dall’inizio il ragionamento che ha fatto ieri dinanzi ai senatori della I di Palazzo Madama. «Mi consenta di cominciare con un aneddoto che credo istruttivo anche del mio punto di vista», ha esordito rivolgendosi al presidente della commissione e relatore del provvedimento, Alberto Balboni. «Ero ministro da un paio di settimane, quando mi toccò rispondere all'invito dell'Assemblea degli avvocati parigini per illustrare il nuovo codice di procedura penale, il codice Vassalli. Lo illustrai, riscossi attenzione – ha raccontato ancora Martelli - e poi prese la parola il Presidente degli avvocati francesi, il quale con molta cortesia si disse ammirato di questa iniziativa coraggiosa del Parlamento italiano per aver cambiato il vecchio rito inquisitorio però obiettò: “le confesso che ci sono perplessità tra di noi perché fintanto che i nostri studi di avvocati non saranno in condizione di sviluppare le controindagini, e quindi essere effettivamente alla pari con l'accusa, preferiamo allora in questa fase tenerci il nostro giudice istruttore, in quanto almeno c'è qualcuno all'interno della giurisdizione in condizione di frenare l'esuberanza dei nostri pubblici ministeri”». «Per me fu una specie di rivelazione – ha confessato l’ex Guardasigilli dinanzi ai senatori -: chi ha immaginato che la riforma Vassalli potesse superare una situazione di totale disparità tra i poteri dell'accusa e i poteri della difesa poi si trovò di fronte a un'obiezione conservatrice ma molto seria. Non fosse peraltro perché dobbiamo immaginare l'opposto: che se i giudici venissero reclutati tra l’ordine degli avvocati credo che da parte della magistratura si solleverebbe qualche obiezione». Castelli ha appunto ricordato che «la Costituzione prevederebbe anche la possibilità di reclutare i giudici, almeno di Cassazione, anche al di fuori dell'ordine giudiziario. Provai a dare concretezza a questa previsione costituzionale ma le obiezioni furono infinite, come spesso accade quando si cerca di toccare il sistema giudiziario». Dunque, «condivido la riforma, ma non credo che essa servirà a garantire la responsabilità del pubblico ministero» perché esiste il rischio che «questa separazione delle carriere configuri una totale anomia del pm» ossia un rappresentante dell’accusa che agisce fuori dalle regole democratiche. L’ex ministro, pur non ipotizzando la possibilità che la magistratura requirente possa finire sotto il controllo dell’Esecutivo, ha però ammesso che laddove ciò avviene non rappresenta un cattivo esempio: «non si tratta di imbrigliare il pm, di sottoporlo al controllo dell'Esecutivo, anche se questo esiste nelle Repubbliche democratiche non in modo totale assoluto come era nei regimi assolutistici; ma una parziale influenza del governo attraverso il ministro della giustizia sull'esercizio dell'azione penale esiste in molti Paesi europei che sono certamente Paesi democratici, dotati di costituzioni democratiche e tutto ciò non fa scandalo». La sua idea di fondo è che «una qualche forma di leale cooperazione tra potere esecutivo e potere giudiziario può esistere, altrimenti si va incontro a scontri ripetuti, a paralisi, a contestazioni infinite. Dunque sì alla riforma, attenzione alle conseguenze perché rimane il problema di come si muove il pubblico ministero nella più totale e assoluta autonomia e indipendenza». Infatti secondo Martelli «con la riforma non si risolve il problema della responsabilità del pm e la sua duplice natura di essere parte del processo e però guida della polizia giudiziaria, che è funzione dello Stato ed è di parte». La leale cooperazione per Martelli «non è come un caciocavallo appeso di quelli di cui parlava il Benedetto Croce, non è un'idea astratta, è sostanziale e dunque richiede una disponibilità da parte anche del pm a considerare i risvolti e le conseguenze altresì sociali della sua azione penale. Il diritto non può vivere in una specie di separazione: mi ricordo quando ero giovane la lunga polemica delle forze di sinistra contro i corpi separati dello Stato, e ci si riferiva a magistratura ed esercito. Attenzione a questa separatezza, perché è un po' in conflitto con la democrazia o può creare conflitti con un sistema democratico». Con quelle di ieri termina il ciclo di audizioni sul ddl sulla separazione delle carriere avviato il 20 febbraio scorso. È attesa per oggi la decisione da parte dell'Ufficio di presidenza sui termini per la presentazione degli emendamenti.
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