A lezione di Costituzione in carcere


Di Valentina Stella Left 27 giugno 2019


Domenica 9 giugno, in seconda serata, la Rai ha trasmesso, durante lo speciale del Tg1, un eccezionale  docufilm dal titolo “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”, prodotto da Rai Cinema e Clipper Media per la regia di Fabio Cavalli (disponibile ora su Raiplay). Pochi giorni prima era stato presentato in anteprima a Roma alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella. Sette giudici della Corte Costituzionale (Lattanzi, Cartabia, Amato, Coraggio, De Pretis, Sciarra, Viganò) hanno incontrato i detenuti di sette Istituti penitenziari italiani: Rebibbia a Roma, San Vittore a Milano, Sollicciano a Firenze, Marassi a Genova, Terni, Lecce sezione femminile, il carcere minorile di Nisida. Per la prima volta da quando è entrata in funzione nel 1956, la sentinella che vigila sulle mura della Costituzione ha deciso di entrare in carcere. “La Corte ha avvertito l’esigenza di uscire dal Palazzo della Consulta, – spiega nel docufilm il presidente Lattanzi – di conoscere e allo stesso tempo di farsi conoscere, di incontrare persone e di mettersi in discussione”. Con questo docufilm il desiderio di saperne di più e il coraggio di dubitare delle proprie credenze in merito al carcere vengono trasferiti allo spettatore.  Infatti, il carcere come non lo conosciamo è quel luogo nascosto da alte mura dove a fronte di una capienza regolamentare di 50.528 posti sono recluse 60.472 persone, dove nel 2018 si sono suicidati 64 detenuti, con una età media di 37 anni, e di cui 22 ancora in attesa di giudizio. È quel purgatorio giuridico dove in questo momento circa 10000 cittadini sono ancora in attesa del primo giudizio. Dietro a questi numeri, ci sono esseri umani, giusti e meno giusti, innocenti e colpevoli. Ma le loro storie di errori e riscatti sono in un cono d’ombra. Grazie a questo docufilm a loro è stata data luce attraverso il singolare dialogo con i giudici delle leggi che hanno toccato con mano una realtà che fino ad ora avevano interpretato solo su carta e attraverso la Carta Costituzionale.  “Non è un film sul carcere – ci spiega in questa intervista il regista Fabio Cavalli – ma una grande occasione di scoprire il valore della Costituzione”. Fabio Cavalli è attore, regista, autore, scenografo, produttore, docente universitario. Nel 2012 è sceneggiatore di "Cesare deve morire" dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani (Orso d'oro alla 62a edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, candidato italiano agli Oscar 2012). Fondatore del Teatro Libero di Rebibbia, dal 2003 ha realizzato una ventina di spettacoli con i detenuti-attori.
Maestro Cavalli, cosa rappresenta questo docufim?
“Una grande occasione di scoprire il valore della Costituzione, l’idea della forza positiva dello Stato democratico. Quello che il Viaggio mi ha lasciato è la comprensione profonda, concreta, della Carta Costituzionale e di come essa incida sulle nostre vite:  noi purtroppo, spesso, non apprezziamo quest’aspetto della Legge fondamentale della Repubblica, che abbiamo ereditato dalle donne e dagli uomini dell’Assemblea Costituente. Questo intreccio fra Carta e Vita mi si è disvelato proprio accompagnando con le macchine da presa i Giudici nelle prigioni”.
Lei ha conosciuto il mondo del carcere oltre venti anni fa, come regista. Come sintetizzerebbe il sentimento che si prova quando si varcano i cancelli?
“Ogni anno tengo un corso all’Università Roma Tre, dal titolo “Etica ed estetica del teatro in carcere”, e porto decine di studenti a fare tirocinio sul palcoscenico di Rebibbia, assieme ai detenuti-attori della mia compagnia. Pochi giorni fa, nella sua relazione finale, un’allieva ha scritto una frase che mi ha davvero sorpreso. La cito per intero: Vi è una linea sottilissima che intercorre tra amore ed odio o tra questo ed umanità, e se per umanità intendiamo un sentimento il cui obiettivo è il benessere dell’altro, allora non c’è luogo più umano di un carcere e di chi per esso opera. Questa ragazza di vent’anni ha riassunto magistralmente il sentimento che si prova entrando in contatto col carcere e con tutte le sue dolorose contraddizioni: la prevalenza dell’umano, la sua infinita ricchezza”.
Ciò che Lei che mostrato in questo docufilm.
“Ho provato a fare un film che racconti quello che ho visto: incontri di umanità, storie forti. Voglio sottolineare che questo non è un film sul carcere, ma un film sull’incontro tra due mondi, tra uno dei più bei palazzi d’Italia – quello della Consulta – e i luoghi più infimi della società – le celle di un carcere. È un film sull’umanità, sulla necessità di incontrarsi, di conoscersi come appartenenti alla stessa società e coperti dalla stesso ombrello che si chiama Costituzione. Il carcere, il luogo in cui lo Stato esercita tutta la sua forza, ha entrambi i volti: il furore e la bellezza, “l’odio e l’umanità”.  Ho voluto che l’umanità prendesse la forma bonaria di un vero e proprio Caronte, che accompagna i giudici e gli spettatori in questa Viaggio quasi iniziatico verso l’abisso. È Sandro Pepe, agente di Polizia, di carnagione nera, nato in Africa, 140 kg di stazza, temibile e bonario. Fermo e umano, come sempre dovrebbe essere il rappresentante di uno Stato democratico”.
Avete avuto massima libertà per le riprese?
“In uno Stato democratico, l’Amministrazione penitenziaria autorizza a riprendere quasi ogni angolo dell’oscurità penitenziaria. Così è stato. Ho potuto filmare con la più ampia libertà, e nulla è stato nascosto agli occhi dei giudici della Corte”. 
Come si colloca questa opera in un contesto dove uno degli slogan preferiti di qualche politico e di molte persone è ‘marcire in galera’?
“Mi occupo di carcere e arte da venti anni e non ho notato grandi cambiamenti nel sentimento di fondo dell’opinione pubblica verso la questione penitenziaria. La popolazione non ne vuol sentir parlare, crede che occorra buttare la chiave e disinteressarsi dei criminali. Cambiano ministri e governi ma la visione popolare rispetto alla devianza, quella è stata e quella rimane, per mancanza totale di autentica informazione. Questo aspetto mi preoccupa fino ad un certo punto, perché si può comunque tentare ogni giorno di attuare l’articolo 27 della Costituzione, nonostante il pregiudizio: il compito del carcere è quello di risocializzare il condannato, e non di perseguitarlo”.
Tutti temi che fanno poca audience.
“Ci troviamo davanti ad un paradosso doppio. Come dice Jean Genet  in uno scritto autobiografico del 1948, intitolato L’Enfant criminel: senza la nostra biografia di criminali le pagine dei libri sarebbero vuote, i palcoscenici vuoti, gli schermi dei cinema spenti, sì, perché gli autori cantano la gloria dei criminali, e gli spettatori amano assistere alla rappresentazione del male, quel male che nella vita reale odiano… Insomma, senza il crimine, la società borghese non avrebbe nulla con cui divertirsi. Tu apri un palinsesto televisivo a qualunque ora e vedi che si parla di crimine, di reati, di eroi negativi, di efferatezze, inchieste poliziesche, processi, condanne. Noi in realtà siamo intrisi letteralmente di cultura criminale. Tutta la cinematografia dagli anni ’50 fino ad ora e i moderni criminal show in prima serata sono dedicati a questo. Come scrive Genet:  Sciuscià, Ladri di biciclette, Pinocchio, Lucignolo, sono gli eroi immaginari che accompagneranno le vostre vite per sempre, come divertimento, distrazione, e nel frattempo continuerete a disprezzare i modelli sventurati a cui quegli eroi si ispirano: la vera grandezza vi sfiora, e ne avete troppa paura, ma vi stuzzica e preferite godervi il brivido che vi regala la sua imitazione; l’originale costa troppo caro.  Dunque, un docufilm sul carcere dovrebbe avere grande audience! Ma ci vogliono gli eroi del Male, contro le forze del Bene, per impressionare lo spettatore. Riusciranno i detenuti delle sette carceri, e i sette giudici della Corte a impersonare i ruoli, tanto da conquistare il pubblico? Con tutto il rispetto istituzionale per i ruoli reali e per le persone, io, francamente, ho provato a ricreare anche in docu la dialettica del cinema. Spero di esserci riuscito almeno un po’”.
Ci può raccontare il suo incontro con mondo penitenziario?
“Il mio incontro col mondo carcerario inizia molto tempo fa  come spettatore di Armando Punzo nel carcere di Volterra, nel 1999. Ho incontrato quella realtà che poi è diventata parte di me quando per caso un amico mi ha chiesto di entrare a Rebibbia Nuovo Complesso dove un gruppo di detenuti dell’alta sicurezza aveva voglia di fare teatro ma aveva difficoltà artistiche e organizzative. Quando sono arrivato, nel 2003 – direttore era Carmelo Cantone, un amico - ricordo che potevamo provare lo spettacolo per qualche ora a settimana, in una stanzetta, in 25 persone. Riuscimmo nel miracolo di debuttare con Napoli milionaria, di Eduardo. A quel tempo il palcoscenico di Rebibbia era più piccolo della metà: questo conferma che l’uso sviluppa l’organo. Oggi Rebibbia, con i suoi 340 posti, è una delle principali sale di Roma per affluenza di pubblico esterno. È dotata delle più aggiornate tecnologie di trasmissione per il live streaming in fibra ottica. Allestiamo spettacoli ed eventi e li riprendiamo in diretta per trasmetterli sul web e nei teatri italiani. O nelle carceri, come è accaduto per la partenza del Viaggio della Corte, il 5 ottobre dell’anno scorso. Erano collegati 120 carceri e migliaia di detenuti”.
Dal 2003 presso il Teatro Libero di Rebibbia sono stati prodotti 40 spettacoli con oltre 300 alzate di sipario con un affluenza di pubblico di oltre 60.000 spettatori. Come descriverebbe il binomio teatro e carcere?
“Il teatro, come luogo dell’arte, è una zona franca. Si dice che solo il lavoro restituisca il recluso alla società,  ma non è vero. L’arte lo fa sicuramente, il lavoro forse. Su 550 detenuti che ho incontrato dal 2003 a Rebibbia il tasso di recidiva è bassissimo: il 10 per cento contro il 67 della media nazionale. Provo a gridare ai quattro venti questo fatto, a raccontarlo in giro, ma pochi capiscono veramente questo concetto. È perché gli artisti non han voglia di far politica. L’arte ha una grande capacità di liberazione dal dolore e dalla voglia di ricommettere il reato. Le moderne neuroscienze studiano l’impatto della “terapia linguistica” sullo  sviluppo di nuove connessioni cerebrali. Imparare a memoria le parole altissime dei poeti - Dante, Shakespeare – e comprenderle e interpretarle nella recitazione, spalanca l’immaginazione. Noi siamo natura e cultura, le nostre esperienze ci trasformano, e in questo l’arte ha un ruolo fondamentale. L’esperienza teatrale va a sedimentarsi nella memoria, costruisce nuovi sentieri, rispetto a quelli obbligati dal regime penitenziario. Certo, interpretare un personaggio è difficile, faticoso. Ci sono le regole ferree del teatro o del cinema da rispettare, è obbligatorio il gioco di squadra. Sul palco non si può sbagliare. Ma questa fatica, questo ostacolo, che l’arte mette di traverso all’abitudine del carcere, si supera: con l’applauso del pubblico. Che ripaga di ogni fatica e ci fa scoprire parti sconosciute di noi. Una detenuta di Rebibbia Femminile sostiene in un’intervista nel film che nulla ti produce adrenalina come compiere azioni criminali. E quella adrenalina crea dipendenza. Lo dice perché questa detenuta non ha mai fatto teatro. I miei attori, dietro le quinte, alla prima dello spettacolo, mi confessano che la paura che provano entrando in scena è molto più forte di quella che provavano prima di una rapina in banca.

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