«Siamo a rischio da sempre, ma alcuni magistrati se ne ricordano solo ora»
Di Valentina Stella Il Dubbio 6 dicembre 2019
“La caduta della preclusione
rende giustizia al diritto alla speranza di ogni persona detenuta e amplia
l’ambito di giurisdizione della Magistratura di Sorveglianza, quale giudice dei
diritti delle persone detenute”: così la dottoressa Maria Antonia Vertaldi, da
due anni presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma, commenta al Dubbio la sentenza della Corte
Costituzionale sull’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, primo
comma, dell’Ordinamento penitenziario.
Dottoressa Vertaldi, la
Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 4bis
dell'ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di
permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia. Lei ritiene che
anche chi si è macchiato di gravi delitti ed è stato condannato per mafia e
terrorismo abbia diritto alla speranza?
Io credo che la speranza, quale
attesa fiduciosa di un evento gradito o favorevole ed orientato nel bene, sia
quasi sempre e sua volta, produttiva di bene in quanto chi la nutre, in un
certo senso, con la sua condotta cercherà pur sempre di agevolare il
verificarsi dell’evento atteso. Credo, altresì, che non
si debba mai privare nessuno del “diritto
alla speranza come diritto di ricominciare” facendo sì che mentre “si rimedia agli sbagli del passato non si
cancelli la speranza nel futuro garantendo prospettive di riconciliazione e di
reinserimento”. È stato
affermato da Papa Francesco, il quale ricevendo nel corso del mese di settembre
2019 in S. Pietro la Polizia Penitenziaria ed il Personale dell’Amministrazione
penitenziaria, si è rivolto anche ai detenuti ed ha detto: “non lasciatevi mai imprigionare nella cella buia di un cuore senza
speranza” e li ha invitati ad avere “il
coraggio umile di chi non mente a se stesso” per veder rifiorire la fiducia
e la forza per andare avanti. Il Papa, sostanzialmente, ha fornito il viatico
per uscire dalla metaforica “cella di un cuore senza speranza” indicando la via
della revisione critica del passato al fine di iniziare un cammino nuovo che
poi potrà comportare anche la rescissione di legami criminali e, quindi,
scemare sensibilmente il profilo di pericolosità sociale di chi ha commesso
anche gravi reati. È anche questo percorso che la
Magistratura di Sorveglianza dovrà accertare essere avvenuto per poter fare
accedere anche i condannati per reati di criminalità organizzata a permessi –
premio pur in assenza di collaborazione con la giustizia. Essa penso che
abbia dato e dia i suoi frutti nel contrasto alla criminalità organizzata; non
so quante siano, tuttavia, le scelte collaborative “libere”, in ogni caso sono
servite a chi le ha operate e sono servite a chi le ha utilizzate anche per
riconquistare territori massacrati. Non credo, tuttavia, che collaborazione con
la giustizia sia anche necessariamente ravvedimento, rieducazione e volontà di
fare per gli altri in una ottica riparativa. Sarà anche interessante verificare
il numero delle collaborazioni che interverranno a seguito della sentenza della
Corte Costituzionale. Il tema
che la CEDU e la Corte Costituzionale pongono all’esame della Magistratura di
Sorveglianza è collegato alla funzione della pena in generale e alla sua
umanizzazione nonché alla contemporanea esigenza di tutela della sicurezza
della società civile, specialmente trattandosi di concedere temporanei spazi di
libertà a soggetti che hanno commesso gravi reati anche in collegamento con
organizzazioni criminali. La Magistratura di sorveglianza, come sempre, saprà
cogliere dai risultati del trattamento condotto in carcere, caso per caso,
tutti gli elementi necessari per la più corretta formulazione del giudizio
prognostico, ipotizzando all’uopo anche la adozione di protocolli operativi di
indagini patrimoniali nonché ogni altra iniziativa istruttoria utile a far
confluire nel procedimento concreti elementi di fatto relativi ai singoli
soggetti e non solo generiche affermazioni circa la attualità della sussistenza
delle diverse organizzazioni criminali e la appartenenza ad esse dei diversi
soggetti. La caduta della preclusione rende giustizia al diritto alla speranza,
quale diritto di veder valutato il percorso trattamentale di ogni soggetto
detenuto e amplia l’ambito di giurisdizione della Magistratura di Sorveglianza quale
giudice dei diritti delle persone detenute.
Molti hanno criticata questa
decisione perché così i magistrati di sorveglianza potrebbero essere ricattati
e/o minacciati al fine di concedere i benefici ai detenuti. Il presidente della
Consulta Lattanzi ha risposto “Non abbiamo giudici che si fanno intimorire”.
Lei come commenta?
La giurisdizione della
Magistratura di Sorveglianza è connotata oltre che dal carattere della
“prossimità” al soggetto condannato per la valutazione del suo individuale
progredire nel trattamento anche da altri due fattori: dall’ esercizio di potere discrezionale e dalla
peculiarità della formulazione del giudizio prognostico anche in relazione al
buon esito delle misure e/o benefici
richiesti; esso è correlato al delicato, complesso e composito giudizio sulla
pericolosità sociale del soggetto, ove convergono da un lato l’esame del suo
profilo personologico, comportamentale e psicologico e la sua criminogenesi,
dall’altro lato la sua capacità di instaurare valide relazioni anche
all’interno del carcere che possano essere valutate come espressione di un
processo di responsabilizzazione e di rieducazione in corso. Tale giudizio presiede a tutte le delibazioni
della Magistratura di Sorveglianza che riguardano soggetti appartenenti sia
alla criminalità comune che a quella organizzata e, riguardo a quest’ultima,
già altre pronunzie appaiono oggi delicate ed incisive. La Magistratura di Sorveglianza ha sempre esercitato la sua peculiare
giurisdizione con grande responsabilità. Per quanto ricordi, il tema “possibilità
di intimidazione e/o paura” del Magistrato di Sorveglianza non si è mai posto,
né alcuna straordinaria particolare tutela è stata mai adottata per i Magistrati
di Sorveglianza, meno che mai, ad esempio, per quelli del Tribunale di Sorveglianza
di Roma che di volta in volta compongono i collegi giudicanti in materia di
art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, contrariamente a quanto accade,
sempre a mero esempio, per i Magistrati della Direzione Nazionale Antimafia che
alle medesime udienze partecipano nell’espletamento delle loro funzioni. L’esposizione a rischio minaccia è da
ritenersi verosimilmente uguale per il giudice penale, per il p.m. e per il
magistrato di sorveglianza; enfatizzare
oggi una ipotetica maggiore esposizione del magistrato di sorveglianza nel
momento in cui quest’ultimo opera nella materia oggetto della pronuncia della
Corte Costituzionale in parola conduce al risultato, certamente non voluto, di
riconoscere quasi una astratta forza intimidatoria posta a presidiare la
giurisdizione e, dunque, una vulnerabilità della Magistratura di Sorveglianza.
Purtroppo la Magistratura di Sorveglianza è ritenuta spesso una magistratura di
serie b) e non da tutti apprezzata: è il giudice che cambia la pena, che
insidia l’equivoco diffuso dal paradigma carcere/certezza della pena, laddove è
principio di civiltà giuridica adeguare l’afflittività e/o le modalità
esecutive della pena al progredire dei condannati nel loro programma di
trattamento. Quanto deciso dalla Corte Costituzionale, invece, devolve
alla Magistratura di Sorveglianza, anche rispetto a quei soggetti che per aver
commesso gravi reati anche in contesti di criminalità organizzata sono stati
condannati anche all’ergastolo, quella attività di giurisdizione che la
preclusione e l’automatismo di cui all’ art. 4 bis c.1 o.p. aveva congelato; viene introdotto il giudizio di
valutazione, complesso e composito, sul profilo di pericolosità sociale del
condannato detenuto, sulla sua partecipazione al trattamento condotto nei suoi
confronti, più che sulla mera condotta carceraria; viene valutato il suo
allontanamento dalle organizzazioni criminali, atteso che alcuna presunzione
assoluta di pericolosità sociale può più trovare applicazione dovendosi sempre
considerare l’effetto positivo dell’azione di rieducazione condotta in carcere.
La Magistratura di Sorveglianza per il suo ruolo centrale nell’intero
complesso sistema dell’esecuzione della pena si ritiene vada, pertanto, messa
nelle condizioni di bene operare e di far fronte ai rischi connessi alla sua
peculiare attività giurisdizionale dotandola di adeguato organico di personale
di magistratura ed amministrativo nonché facendole pervenire note informative e
pareri più fluidi e contenutisticamente più ricchi di indicazioni di elementi
di fatto, in base ai quali poter argomentare sia in punto di attualità di
pericolosità sociale che di collegamenti con organizzazioni criminali.
Il precedente Governo,
nell'approvare la riforma dell'ordinamento penitenziario, ha escluso le misure
alternative. Dalla Sua esperienza, Lei crede che la concessione di misure
alternative al carcere sia un elemento utile all'abbassamento della recidiva e
alla piena rieducazione del condannato?
Nel corso del tempo è intervenuto
un mutamento genetico delle misure alternative talune volute, sostanzialmente,
più in chiave deflattiva del sovraffollamento carcerario; inoltre, alcune
preclusioni ed automatismi ostativi nell’accesso alle misure sono stati
inseriti a garanzia della percezione di una maggiore sicurezza sociale, in
particolari periodi storici nel corso dei quali si sono verificati eventi
tragici ad opera della criminalità organizzata. Sono state, dunque, perseguite
di volta in volta le finalità di una legislazione altalenante rispetto ad
esigenze di tipo deflattivo o securitario, sostanzialmente erodendo la funzione
primaria della Magistratura di Sorveglianza della valutazione individuale del
progredire del soggetto detenuto nella
sua centralità, nel trattamento, onde consentirgli di espiare una pena, anche
quantitativamente e qualitativamente diversa da quella comminata in sentenza di
condanna, secondo il principio di civiltà giuridica per il quale l’afflittività
della pena deve essere proporzionata al progresso che il condannato compie nel
trattamento. Le rilevazioni
statistiche nazionali ed internazionali evidenziano come l’espiazione della
pena, o parte di essa, in regime alternativo alla detenzione contenga molto il
rischio di ricadere nella commissione del reato; in effetti la necessità di
dedicarsi ad uno stabile lavoro o altra attività socializzante, il doversi
adoperare nei confronti della vittima del reato e tutte le altre prescrizioni
responsabilizzanti che il Tribunale di Sorveglianza, caso per caso e sulle
rilevate esigenze, impone sulla base della osservazione condotta in carcere sul
condannato da professionisti esperti, aprono a quest’ultimo la via della
legalità e del rispetto delle regole di civiltà. Tuttavia, non solo deve dirsi che non tutte le misure alternative
hanno buon esito ma, anche che in ordine alla loro concessione incidono in
negativo alcuni fattori, quali la mancanza di offerta di lavoro da parte del
territorio nonché la mancanza di accoglienza per chi risulta essere
stigmatizzato dalla condizione di soggetto in espiazione di pena. Altra
difficoltà è rappresentata dalla mancanza di idoneo domicilio ove alloggiare
nel corso della eventuale misura, in particolar modo per soggetti stranieri o
senza fissa dimora e così pure la mancanza di accoglienza familiare ovvero
l’ipotesi di rientro in ambiente socio-familiare non adeguato per la sua
connotazione criminale. Molte difficoltà, riguardo a soggetti
tossico/alcool dipendenti, creano, inoltre, l’assenza, la genericità e/o
l’inadeguatezza dei piani terapeutici indicati; per non parlare del ridotto
numero di Comunità terapeutiche accreditate e, problema ancor più serio, dell’ancor
più ridotto numero di strutture accreditate che offrano accoglienza e cura per
soggetti portatori di doppia diagnosi.
Molti avvocati lamentano che
nel Tribunale di Sorveglianza di Roma persista una “intollerabile situazione
che da tempo contraddistingue l’esercizio delle legittime prerogative
difensive”.
Il bacino di utenza del Tribunale
di Sorveglianza di Roma si estende su tutto il Distretto della Corte di Appello
di Roma e su tutto il territorio della Regione Lazio anche a mezzo di tre
Uffici di Sorveglianza (Roma, Frosinone e Viterbo) e sono complessivamente
tredici gli Istituti di pena che insistono sul territorio. Il Tribunale di
Sorveglianza di Roma ha, inoltre, giurisdizione nazionale esclusiva in ordine
ai reclami avverso la imposizione e/o la proroga del regime di cui all’art. 41
bis o.p. ed in ordine alle istanze avanzate dai collaboratori di giustizia. Solo recentemente sono state coperte le
vacanze nell’organico dei magistrati; nel corso dell’anno 2018 abbiamo sofferto
anche di tre scoperture contemporanee. La situazione dell’organico del Personale
amministrativo è tragica in quanto presenta una scopertura complessiva attuale
vicina al 37% (che nel primo trimestre del 2020 sarà del 40%) in relazione alla
quale nelle sedi competenti alcuna iniziativa risolutiva, sempre richiesta, è
stata adottata. Iniziative di
riorganizzazione degli Uffici sono state da me assunte sia riguardo alla creazione di
strutture amministrative orientate a rendere più fluide le lavorazioni della
diverse procedure - auspicando un
riverbero positivo sui tempi della risposta giudiziaria - sia riguardo all’organizzazione del lavoro dei
magistrati - predisponendo un programma di gestione della pendenze e delle
sopravvenienze al fine di definire celermente innanzitutto i procedimenti
pendenti recanti iscrizione risalente nonché di stabilire priorità nella
trattazione dei diversi procedimenti in ragione delle aspettative e delle
esigenze della utenza. Ogni iniziativa ad oggi è stata condizionata
negativamente dalla mancanza di risorse umane da destinare a supporto
dell’attività di giurisdizione dei Magistrati di sorveglianza i quali, in ogni
caso e con impegno, garantiscono annualmente un equilibrio tra i flussi in
entrata e quelli in uscita. Certamente
la inadeguatezza dei locali destinati al Tribunale di Sorveglianza, la carenza
di personale amministrativo, nonché una insufficiente informatizzazione degli
uffici, frustrano molto non solo l’utenza ma anche lo stesso personale
amministrativo oltre che i magistrati che tutti i giorni lavorano in una tale
situazione di disagio. La
centralizzazione di alcuni servizi essenziali con uffici allocati in modo
diverso e più razionale, ci consentirà a breve anche di destinare agli avvocati
una “Sala Avvocati” in adiacenza al front
office, per l’arredo della quale l’Ordine degli Avvocati di Roma, nella
sinergica collaborazione che si è creata anche con la Camera Penale e
l’Associazione Nazionale Forense, intende mettere a disposizione fondi. Il Ministro della Giustizia
nell’immediatezza della pronuncia della Corte Costituzionale ha affermato che la questione merita
priorità; mi auguro che sia anche al fine della predisposizione delle risorse e
dei mezzi per consentire la migliore conduzione della ulteriore attività
complessa della Magistratura di Sorveglianza che la pronuncia suddetta
richiede; d’altra parte è già da troppo tempo che la Magistratura di
Sorveglianza, dinanzi a mutate ed aumentate esigenze della sua giurisdizione,
richiede a viva voce l’ adeguamento delle piante organiche di magistrati e di
personale amministrativo in servizio presso gli uffici di sorveglianza. Tale
intollerabile realtà lavorativa del Personale amministrativo e di magistratura
genera, a sua volta, la intollerabile situazione che da tempo contraddistingue
l’esercizio delle legittime prerogative difensive, come talvolta l’Avvocatura
lamenta. A riguardo ho formalmente
interessato anche il Presidente della Repubblica, il quale ha richiesto al Ministro
della Giustizia di sapere quali iniziative saranno adottate.
Il coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza ha criticato
il dl per la revisione dei ruoli dei comandanti e direttori. Qual è il suo
parere in merito?
Il vertice della Direzione di un
penitenziario ritengo debba essere unico. La Magistratura di sorveglianza ha
bisogno di un solo interlocutore e, così pure, la responsabilità deve essere
concentrata in capo ad un solo soggetto che non può che essere il vertice
civile. In ogni caso, è necessario prevedere una riorganizzazione della Polizia
penitenziaria, specialmente in punto di progressione in carriera, in
considerazione della affinata professionalità che esprime nel quotidiano
svolgimento della sua delicata funzione anche presso i Tribunali di
Sorveglianza a supporto delle attività della magistratura.
Innegabile è il problema del
sovraffollamento carcerario che interessa da vicino l'operato dei magistrati di
sorveglianza. La soluzione proposta dal Ministro è quella della costruzione di
nuove carceri.
Migliorare
l’esistenza di chi è in espiazione di pena detentiva pensando innanzitutto agli
spazi fruibili, secondo il dettato della CEDU, è giusto. Penso, tuttavia, che
non sia la sola costruzione di nuove carceri, per quanto magari ispirate a
modelli architettonici attenti a fornire il giusto spazio nelle camere di
pernottamento nonché adeguati spazi da destinare alla socialità ed al lavoro
per i detenuti, a poter risolvere il problema del sovraffollamento. Credo che
sia contemporaneamente necessario dare dei contenuti alla pena detentiva
affinché diventi veramente occasione per il condannato di riflessione sul suo
vissuto; di responsabilizzazione e di progettazione di un proprio futuro, in
modo da facilitare l’accesso alle misure alternative alla detenzione non solo
nell’ottica di deflazione del sovraffollamento ma, principalmente nell’ottica
del contenimento del rischio di recidiva e, dunque, in una dimensione di
prevenzione generale della criminalità e del sistemico sovraffollamento delle
carceri del nostro Paese. Ciò può accadere disponendo adeguate risorse
umane e mezzi tali da poter incrementare il portato del trattamento individuale
per il singolo detenuto, secondo le sue peculiarità ed esigenze, quali possono
emergere da una accurata osservazione; privilegiando, inoltre, il lavoro quale
elemento importante del trattamento, incrementando opportunità di apprendimento
ed acquisizione di abilità professionali spendibili anche all’esterno ed a fine
pena, sia con avviamento al lavoro all’interno degli Istituti di pena che
all’esterno, prevedendone, possibilmente, anche la remunerazione. Per altri versi, in una auspicata
revisione generale dell’intero sistema dell’esecuzione penale, occorrerebbe individuare
altre tipologie di pene, diverse da quella detentiva e nell’alveo delle misure
alternative, ove le prescrizioni imposte e formulate sulla dichiarata volontà
del soggetto, in una sorta di “patto” di voler fare per sé e per gli altri, siano
più responsabilizzanti per il condannato e, dunque, più rispondenti
all’esigenza di tutela della sicurezza sociale.
Il Garante dei Detenuti del Lazio diverse
volte ha denunciato un rapporto quasi inesistente tra i detenuti e i magistrati
di sorveglianza.
È
noto, in quanto anche da me in diverse sedi Istituzionali denunciato, il
drammatico dato che si registra presso l’Ufficio ed il Tribunale di Sorveglianza
di Roma riguardo al Personale con qualifica di conducente di automezzi; alla
data del 1 maggio 2020, rispetto ai 9 autisti previsti in pianta, non sarà in
servizio alcuno di essi, in quanto l’unico ed ultimo dei conducenti,
attualmente in servizio, andrà in quiescenza. Allo stato, si fruisce solo di
due autisti in applicazione con rinnovo semestrale. È opportuno evidenziare che
molti Magistrati utilizzano la propria autovettura per raggiungere i diversi
Istituti e, talvolta, con ulteriore assunzione di responsabilità, trasportano
anche il Personale amministrativo destinato alla verbalizzazione dei colloqui
in carcere. In assenza di
adozione di valide soluzioni definitive, sempre invocate, sarà sempre più
difficile garantire i molteplici servizi di competenza di tale figura
professionale. Tanto premesso, credo
che si sottovalutino le difficoltà in cui versano l’Ufficio ed il Tribunale di
Sorveglianza di Roma, il cui funzionamento è spesso affidato alla buona volontà
ed al sentito spirito di servizio dei singoli, Magistrati e Personale
amministrativo. Sono
certamente consapevole dell’importanza di incrementare le visite ed i colloqui
del Magistrato di Sorveglianza con i detenuti, anche in ragione del carattere di prossimità della nostra
giurisdizione ma, in mancanza di risorse umane a supporto della funzione del
Magistrato di Sorveglianza, non appare semplice la soluzione della criticità.
Ricorda un episodio relativo
alla storia di un detenuto che l'ha particolarmente colpita?
Con i soggetti detenuti ho sempre cercato di instaurare innanzitutto
un rapporto umano fondato sul rispetto reciproco e senza compromettere il
rapporto detenuto/magistrato di sorveglianza. Ho fatto troppi anni di carcere
per rimanere indifferente dinanzi alla detenzione, che è comunque una
situazione di dolore, e per non comprendere che anche la mera condivisione,
appunto di una sola speranza, “con il mio giudice” può servire a rasserenare,
rabbonire e motivare in meglio la persona detenuta: questi sono gli
insegnamenti di Igino Cappelli, uno dei Padri della riforma penitenziaria, che
ho avuto la fortuna di avere come Presidente allorquando ero una giovane
magistrato di sorveglianza a Napoli. Fu proprio a Napoli che concessi un
permesso –premio ad uno dei tanti ladruncoli che avevo incontrato a
Poggioreale: voleva conoscere il figlio neonato e abbracciare la moglie. In
occasione di una festività gli concessi un breve permesso- premio dal quale
evase non facendo più ritorno in carcere. Nell’immediatezza dell’inizio della
sua latitanza mi scrisse una lettera nella quale mi chiedeva scusa per aver
tradito la mia fiducia e mi diceva che per tale motivo aveva anche litigato con
la moglie che non aveva condiviso la sua decisione di non rientrare in carcere.
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