«Trattato da ’ ndranghetista, oggi scagionato ma rovinato»

di Valentina Stella Il Dubbio 16 febbraio 2019

Salvatore Lania il giorno dopo la sentenza di primo grado che lo ha assolto con formula piena, insieme ad altri otto imputati, dall’accusa di intestazione fittizia di beni non è sollevato e sereno come ci si aspetterebbe. «Sono amareggiato e arrabbiato per quello che è successo a me e alla mia famiglia» mi racconta mentre passeggiamo per il centro di Roma, nei pressi del Pantheon, dove ci sono i tre ristoranti che lo hanno reso sfortunatamente noto alle cronache giudiziarie: “Er Faciolaro”, “Rotonda” e “Barroccio”, sequestrati nel 2015 nel corso di un’operazione della Dia sulle infiltrazioni della ‘ ndrangheta a Roma. È quasi ora di pranzo e i turisti popolano le strade ma, mi dice Salvatore, «i miei locali non si riempiono più come una volta; da quando la giustizia, anzi la malagiustizia mi ha travolto, i tour operator non fanno più affari con noi». Salvatore è un fiume in piena, vuole sfogarsi, vorrebbe far conoscere la sua storia, vorrebbe dire a tutti che lui con la ‘ ndrangheta non ha nulla a che fare: «Io sono arrivato a Roma circa trenta anni fa; ho lasciato il mio paese d’origine, Seminara, e dalla Calabria sono venuto qui a cercar fortuna. Ho iniziato a fare il pizzaiolo, poi piano piano ho rilevato un locale e dopo con molta fatica ho acquisito le quote della “Rotonda” da una cinese. Da lì, con l’aiuto anche dei miei familiari, ho cominciato ad espandermi: ho agito sempre nella legalità, sempre pagando le tasse, sempre con la massima trasparenza, e sempre con tanta fatica».

Poi nel 2009 inizia il calvario giudiziario quando viene arrestato nell’ambito dell’operazione “Rilancio”: accusato di traffico internazionale di merci contraffatte prodotte in Cina e stoccate nel porto di Gioia Tauro, trascorrerà 53 giorni nel carcere di Regina Coeli e quasi un anno ai domiciliari. Anche quella volta verrà assolto con formula piena e risarcito per ingiusta detenzione. «Molti hanno scritto – precisa Salvatore – che nel 2009 fui coinvolto con il sequestro del “Café de Paris” ma io non c’entro nulla. Il mio procedimento era un altro e mi ha visto assolto nel 2014. Nonostante questo nel 2015 la giustizia è tornata a bussare alla mia porta: ho trascorso tre mesi ai domiciliari, poi quattro mesi con obbligo di dimora fuori Roma. E in tutto questo mi stava nascendo il terzo figlio. Mia moglie è stata costretta a indurre il parto in un giorno prestabilito affinché io potessi vedere mio figlio il giorno dopo, perché il magistrato di sorveglianza non mi ha concesso il permesso di assistere alla nascita di mio figlio”.

Intanto i locali erano stati messi sotto la gestione dell’amministrazione giudiziaria: «Una vera tragedia: molti dipendenti hanno lasciato il lavoro perché gli straordinari non venivano pagati, i guadagni sono diminuiti. Non è vero che, come si scrive, i miei beni hanno un valore di 10 milioni di euro. Prima di tutta questa vicenda le mie società erano in attivo; oggi, dopo 4 anni di gestione giudiziaria, mi trovo con molti debiti proprio a causa della amministrazione da parte dello Stato, quello stesso Stato che mi ha processato e assolto due volte, ma che ora mi abbandona. Chi ridarà il lavoro a chi lo ha perso? Chi mi restituirà gli introiti mancati?». E i danni non sono solo finanziari ma hanno coinvolto l’intera famiglia: «Abbiamo dovuto cambiare casa perché non riuscivamo a pagare l’affitto, abbiamo avuto difficoltà a trovarne un’altra perché non sapevamo che garanzia dare, mia figlia è stata costretta ad andare dallo psicologo, tutti noi abbiamo perso la nostra serenità quotidiana». Per non parlare del danno di immagine: «La stampa mi ha additato come mafioso, i giornalisti sono arrivati sull’uscio del mio appartamento, sono andati in giro a chiedere alla gente se conoscessero il Lania pericoloso ‘ ndranghetista. Avranno la stessa solerzia nel dire che sono totalmente innocente?». La nostra chiacchierata termina davanti al “Faciolaro” con un invito a mangiare l’ottima pizza cotta al forno a legna e con una ultima amara considerazione di Salvatore: «Oggi dovrò rimboccarmi le maniche, insieme alla mia famiglia, per rimettere in sesto tutto. Spero che la giustizia in parte mi ripaghi. Non ho però molta fiducia. Se tutto questo è successo, è anche colpa di chi ha provato invidia per il mio successo e di chi, come il pm, ha cercato di far passare il messaggio che calabrese può significare solo malaffare. Questi sentimenti e pregiudizi sono difficili da scalfire».

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