Scarcerato J. M. per la mancata traduzione della sentenza

di Valentina Stella Il Dubbio 8 febbraio 2019


Proprio un mese fa da queste pagine vi avevamo raccontato la vicenda di un detenuto polacco, J. M., condannato nel 2015 a 4 anni di reclusione e 120.000 euro di multa dal Tribunale di Ancona per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina: in un controllo stradale svolto nel 2010 la Guardia di Finanza rinvenne, all'interno di un camion adibito al trasporto di prodotti alimentari, dodici cittadini extracomunitari provenienti dall'Afghanistan. J. M. era il secondo autista. La storia meritava attenzione perché l’uomo, come ci aveva raccontato il suo avvocato di fiducia Massimiliano Oggiano, non aveva alcuna conoscenza del processo a proprio carico, non era stato mai presente in aula durante il dibattimento, e non aveva avuto nessun apparente contatto con l’avvocato d'ufficio, nominato sottoscrivendo in presenza di alcuni agenti della Guardia di Finanza un verbale in italiano prestampato senza alcuna consapevolezza del contenuto, data la totale assenza di comprensione della lingua italiana - nel quale c’era scritto: “non intendo nominare un difensore di fiducia” ed “eleggo domicilio presso il difensore di ufficio che mi verrà nominato'. Successivamente l’uomo veniva condannato in contumacia in primo grado e la sentenza, mai appellata dal difensore d’ufficio, diveniva subito esecutiva nel 2015. Alla fine del mese di ottobre dell'anno scorso, a distanza di circa tre anni dalla sentenza, il condannato - che aveva sempre condotto una vita lavorativa regolare varcando più volte le frontiere per ragioni di lavoro - è stato fermato in Italia, durante un normale controllo stradale e, previa notifica dell'ordine di esecuzione della sentenza - redatta anch'essa in lingua italiana ( assolutamente incomprensibile al condannato), sebbene notificata con “l'assistenza di un interprete” - è stato arrestato e condotto in carcere per l'esecuzione della pena. Due giorni fa il giudice dell’esecuzione penale di Ancona ha decretato che la sentenza di primo grado non può ritenersi passata in giudicato e ha disposto l’immediata liberazione di J. M.. Adesso l’uomo potrà ricorrere in appello avverso la sentenza di primo grado, appena verrà tradotta in polacco. Intanto è stato oltre tre mesi in carcere. Per capirne di più abbiamo sentito il legale dell’uomo, Massimiliano Oggiano.

Avvocato che tipo di ricorso avete presentato?

È stato proposto un incidente di esecuzione con richiesta di declaratoria di non esecutività della sentenza di primo grado e di sua immediata traduzione in lingua polacca, con conseguente rimessione nel termine per presentare impugnazione.

Cosa ha stabilito nel dettaglio il giudice?

Che la motivazione della sentenza, in quanto redatta in lingua non comprensibile all’imputato, non consentiva a quest’ultimo di poter presentare personalmente atto di appello. Per tale ragione ha dichiarato che la sentenza non può essere eseguita fino a quando non siano eventualmente ed inutilmente scaduti i termini per l’appello che decorreranno dal momento della notifica all’imputato del provvedimento regolarmente tradotto.

Il suo assistito come ha appreso la notizia? E in questo momento è fuori dal carcere?

Il mio assistito ha appreso la notizia ieri sera ( ndr, due giorni fa) alle ore 21.00, allorquando ha potuto lasciare il carcere di Catanzaro, dove era stato trasferito circa venti giorni fa. Purtroppo non ho avuto modo di interloquire, neppure telefonicamente, con lui perché non conosco la lingua polacca. L’interprete che mi aiuta nelle comunicazioni con l’assistito mi ha riferito di grande commozione e di forte desiderio di ricongiungersi presto con la famiglia. Il bruttissimo momento sembra superato, non senza profondo turbamento.

Quali saranno i prossimi passi?

Nell’attesa della traduzione della sentenza in lingua polacca si sono iniziati ad elaborare i motivi dell’atto di appello che, come prevedibile, metteranno in luce il principale vizio della sentenza di condanna, legato al fatto che essa è maturata a valle di un processo celebrato a totale insaputa dell’imputato, mai comparso in aula, ed in una lingua a lui sconosciuta.

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