Racconti dal carcere

(Cronache del Garantista 9 settembre 2014)

Il carcere è di fatto un’astronave che, sempre assai distante dal pianeta Terra, viaggia parallela ad esso”. 

Questo l’incipit della storia con cui Giuseppe Rampello ha vinto il primo premio del concorso letterario “Racconti dal carcere”, dedicato alla scrittrice Goliarda Sapienza. Il 13 novembre ci sarà la finale 2014 e in vista dell’appuntamento abbiamo incontrato il vincitore dello scorso anno. Il suo racconto si intitola “Pure in galera…ha da passà ‘a nuttata”: racconti di vita quotidiana nel carcere romano di Regina Coeli.

Non pensavo di vincere il premio Goliarda che è un premio letterario carcerario. I racconti del carcere sono sempre tragici, sono al sangue mentre il mio è uno stracotto al barolo. Ho cercato di descrivere il carcere in chiave ironica, comica. Insistere nell’esporre gli istituti di pena sempre in termini drammatici potrebbe produrre solo ulteriore disinteresse in una società già troppo indifferente nei confronti di questa questione”. Giuseppe Rampello ci attende nella saletta attigua la biblioteca dell’Istituto di detenzione, il suo domicilio dal 2009, quando vi è entrato per aver ucciso sua moglie Antonia il 12 giugno 2009, e dove dovrà rimanere per terminare di scontare una condanna a 14 anni, dopo un rito abbreviato. “Questa biblioteca è stata inaugurata nel 2010 dopo che ho inventariato più di 4500 libri. Il mio mestiere ora è fare lo scrivano e studiare: sono una matricola di Scienze della Formazione”. Giuseppe Rampello è un uomo molto distinto, che quasi imbarazza l’interlocutore per la sua cultura poliedrica e per la sua celere dialettica. Prima di entrare in carcere faceva il giuslavorista ed era un alto funzionario del Ministero del Lavoro: una bella casa ai Parioli, una figlia studiosa, lavoro e tempo libero spesi con la Roma bene. Un giorno però il black out, un colpo di pistola alla moglie trafigge il sorgere silenzioso dell’alba romana: “La mia storia può essere analizzata da due punti di vista: quello giuridico e quello umano. Quando mi sono trovato davanti al magistrato ho detto ‘il mio gesto rappresenta the dark side of the love’. Si affronta la sofferenza quando c'è un margine di miglioramento, come nel mio caso che affronto il carcere come espiazione e ricostruzione. Ma ci sono fasi della vita in cui il dolore non è più sopportabile. Mia moglie stava male, da troppo tempo.  La mia esplosione, quella mattina, è venuta da un lungo logorio. Negli anni si sono accumulate delle complicanze, che non erano più gestibili. Nella coppia c'è uno che tira: se uno è immobile, l'altro fa da motore, ma se il motore perde colpi....Forse durante quel gesto ero pazzo. Sono rimasto stupito dall’analisi della mia vicenda che ha fatto il giudice Gallari nella sentenza di condanna di primo grado. Secondo lei si è trattato di gesto di impulso compiuto da una persona abituata a risolvere tutto, e che si è trovata alle prese con una situazione ingestibile. Io ho sbagliato e devo pagare; ciò mi aiuta ad affrontare la quotidianità. Scrivo perché non hanno buttato la chiave del mio cuore e del mio pensiero. Il carcere significa aver sfondato il fondo, ma cerco di non abdicare a me stesso e ogni giorno mi faccio la barba. Non cerco giustificazioni. Purtroppo la vita non ha la retromarcia”. A Giuseppe Rampello non piace molto ricordare quel tragico evento, non ama le autobiografie, preferisce parlare di carcere. “Nella mia vita, nel mondo giuslavorista, sono entrato in contatto con attività lavorative sconosciute: gli albanesi che sono gli unici a spennare polli,  le farmaciste in lotta per le indennità di maternità, mega riunioni alla Farnesina sullo sperma congelato dei tori.  Dei detenuti non mi ero mai preoccupato. Il mondo del carcere ci passa davanti e finisce lì. Se frequentassimo una settimana l’anno un luogo di sofferenza scopriremmo che nella vita ci sono disgrazie più grandi del non trovare parcheggio sotto casa o del taxi in ritardo. Io non mi ero posto mai il problema di cosa ci fosse dentro il carcere, ma quando uscirò da qui continuerò ad occuparmi dei detenuti dal di fuori. Il dramma del carcere è la povertà, che più povertà non c'è. Qui si trovano i veri poveri, coloro che vengono dai paesi più diversi e che qui mettono in gioco tutto per 1000 euro. Il problema è la porta girevole in uscita, non i numeri alti di detenuti in entrata.  E' un mondo fatto di emarginazione, di gente che potrebbe avere i domiciliari ma non sa dove andare, fuori da queste celle. Il carcere è come una cantina dove viene messo ciò che non serve, è il posto di cui la società continua a dimenticarsi. Qui siamo condannati ad essere condannati perché non c'è possibilità di affrancamento”. E la cultura, fin dai primi stadi di apprendimento, potrebbe giocare un ruolo importante nella sensibilizzazione del problema carcere? “Gli interessi degli italiani sono altri. Bisognerebbe recuperare il concetto di solidarietà. C'è una tara mentale: basti pensare  alla donna che nel napoletano dinanzi ad uno cadavere in strada semplicemente lo scavalca”. Ma almeno in carcere c’è solidarietà? “Insomma. A volte puoi trovare anche 30 nazionalità diverse, il che crea problemi di convivenza. Immaginate due amanti scatenati nel miglior resort di Dubai, chiusi in una suite per 20 giorni. Che fine avranno fatto dopo quel tempo? Prendete sei persone a caso dall'elenco telefonico e mettetele in una villa. Come staranno? La logica vorrebbe che ci fosse omogeneità nel sistemare i detenuti ma così non è”. E la politica potrebbe apportare delle soluzioni per migliorare la vivibilità nelle carceri? “Il carcere così come è strutturato serve a poco. Serve solo a quelli come me che sono entrato qui fru fru . Siamo 65000 detenuti: immaginiamo che fossimo tutti italiani, con le famiglie arriviamo a 150000 persone;  dividiamo questo numero per le regioni d'Italia, cioè per venti: fa 7500 voti teorici a regione. Dunque, il potere contrattuale della popolazione dei detenuti è pari a zero. Se a questo aggiungiamo la mancanza di fondi, la situazione non è risolvibile. Oggi noi italiani siamo i coloni e i mezzadri del vecchio latifondista e siamo costretti a vendere i gioielli di famiglia”. Il tempo a disposizione è terminato e Giuseppe Rampello ci saluta facendoci vedere la cartolina che sua figlia gli ha spedito da Zanzibar. Si augura che venga al più presto a trovarlo e nell’attesa ci racconta un episodio di quando la figlia si lamentava di un scontro avuto con un professore liceale. Le disse: “Anche se in un deserto c’è un semaforo rosso, ma all’orizzonte non c’è nessuno, tu devi fermarti e aspettare che esca il verde. Del fatto che chi abbia messo un semaforo nel deserto è un cretino a te non deve importare”. (Cronache del Garantista 9 settembre 2014)

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